Definizione della settimana: Pressione fiscale

Creato il 28 dicembre 2013 da Capiredavverolacrisi @Capiredavvero

ITALIANI TARTASSATI, NON C’E’ DUBBIO. Tartassati dalle troppe tasse: ecco come si sentono, ormai da anni, gli italiani. Con l’aggravante della crisi che, dal 2009 a oggi, ha spinto gli ultimi Governi a rivalersi ancora una volta sui contribuenti per tentare di risanare i conti pubblici: nella ricerca affannosa di risorse, le manovre finanziarie che si sono succedute, infatti, hanno scelto prevalentemente la strada dell’aumento delle imposte invece che quella più virtuosa della riduzione della spesa pubblica. Ma gli italiani hanno davvero ragione a lamentarsi per le troppe tasse? Decisamente sì, perché pagano più balzelli rispetto ai cittadini di quasi tutti gli altri paesi industrializzati: è quanto emerge dalle principali statistiche sulla pressione fiscale. Senza contare che nel nostro Paese c’è un altro fattore specifico che rende la situazione ancora più insostenibile: in Italia, infatti, il fardello fiscale negli ultimi decenni si è accumulato principalmente sulle spalle dei produttori di ricchezza (imprenditori e partite Iva, per esempio, poi lavoratori). E se ogni anno un’impresa in Italia deve restituire in media il 65,8% degli utili (cioè la differenza tra i suoi ricavi e i suoi costi) sotto forma di tasse - lo dicono i dati della Banca mondiale che analizzeremo di seguito – allora si comprende il paradosso per cui oggi molte aziende sono costrette a chiudere i battenti non soltanto per la crisi, ma perché non riescono a tenere il passo di uno Stato sempre più vorace.

PRESSIONE FISCALE: COSI’ E’ CRESCIUTO IL MOSTRO. Si può tentare di misurare la “pressione fiscale” in Italia? Sì, a patto innanzitutto di definirla. Per “pressione fiscale” s’intende, nel gergo degli economisti, il rapporto percentuale tra il complesso delle entrate tributarie e contributive pagate allo Stato da una parte e il Prodotto interno lordo (Pil) dall’altra. (Mentre la “pressione tributaria”, per precisione, indica solo il rapporto percentuale tra il gettito globale di imposte, tasse e Pil, senza contare i contributi). In generale, con quel rapporto che chiamiamo “pressione fiscale”, indichiamo dunque la quota del reddito prelevato dallo Stato e dagli enti locali territoriali allo scopo di finanziare la spesa pubblica. Nel 2012, secondo gli ultimi dati consolidati della Banca d’Italia pubblicati nel dicembre 2013, la pressione fiscale è al 44%, in salita dal 42,5% del 2011. Secondo le stime previsionali più recenti del Centro studi di Confindustria, nel 2013 siamo arrivati al 44,3%, mentre nel 2014 ci attesteremo sul 44,2%. Detto in altre parole: quasi la metà del reddito prodotto da ciascuno di noi viene prelevato dallo Stato e dagli enti locali per finanziare le proprie attività.

Come ha scritto il sociologo Luca Ricolfi nel suo saggio “La Repubblica delle Tasse”: “Grazie al debito e alla spesa allegra, per trent’anni la classe politica è riuscita nella doppia impresa di alimentare clientele (specie al Sud, grazie a trasferimenti e sussidi) e distribuire rendite (specie al Nord, grazie agli alti interessi su Bot e Cct). Questo meccanismo di espansione dei ceti parassitari entra in crisi verso la metà degli anni Ottanta, quando la voragine del debito non basta più a saziare il minotauro statale. Non paga delle risorse rastrellate emettendo debito pubblico, la classe politica ora comincia a drenare quattrini anche attraverso l’aumento delle tasse. Nel giro di appena 8 anni, dal 1985 al 1993, la pressione fiscale passa dal 35% al 43%, mentre il debito pubblico, anziché diminuire, tocca il suo massimo storico, pari al 120% del Pil”. Anche a voler analizzare quanto successo negli anni 90 in poi, l’andamento della pressione fiscale degli ultimi 15 anni non fa ben sperare per il futuro, come dimostra il confronto operato dallaBanca d’Italia rispetto ai principali Paesi europei. La pressione fiscale italiana era al 41,4% nel 1996 ed è arrivata al 44% nel 2012. In Germania, nello stesso periodo, è passata dal 41,1% al 40,2%. In Spagna dal 33,6% al 34,1%.

PRESSIONE FISCALE “REALE”, PEGGIO MI SENTO. La pressione fiscale è una grandezza media, calcolata essenzialmente come rapporto tra gettito globale incassato dallo Stato e Pil prodotto dal Paese. Tale media, ovviamente, viene “abbassata” dal gettito-zero dichiarato dagli evasori, persone fisiche o imprese che siano. Se in base alle stime sull’economia sommersa depurassimo quel rapporto dall’economia “in nero”, allora ci renderemmo conto che la situazione, per chi paga le tasse, è ancora più grave: la pressione fiscale effettiva o reale, secondo Confindustria, raggiunge il 53,3% quest’anno; per Confcommercio addirittura il 54%. Detto altrimenti: il fatto che nel complesso la pressione fiscale sia alta e allo stesso tempo ci sia molta evasione, indica che la pressione fiscale su chi paga è ancora più alta della media apparente.

“SE QUALCUNO PRODUCE, TASSALO”. Nel 1986 Ronald Reagan pronunciò uno dei suoi celebri aforismi: “La visione governativa dell’economia può essere riassunta così: se qualcosa si muove, tassala; se continua a muoversi, regolala; e se si ferma, sussidiala”. Sul Presidente repubblicano degli Stati Uniti, ciascuno avrà la sua opinione. Tuttavia è un fatto, confermato da tutti i confronti internazionali, che in Italia chi si muove con l’obiettivo di produrre ricchezza viene tassato oltremisura. Secondo la Banca Mondiale, addirittura, la pressione fiscale e contributiva sui produttori italiani – chiamata in inglese Total Tax Rate (Ttr) – è quella più pesante di tutto il continente europeo. Un’impresa media italiana – secondo lo studio “Paying Taxes 2014” pubblicato nel novembre del 2013 dall’organizzazione internazionale con sede a Washington – deve allo Stato il 65,8% dei suoi utili. Ogni anno. La media europea è di quasi 25 punti percentuali più bassa (41,1%); in Germania il Total Tax Rate è al 49,4%, nel Regno Unito al 34%. Non solo: il fisco italiano è anche burocraticamente oppressivo. Per rispettare tutti gli adempimenti fiscali, in Italia ci vogliono in media 269 ore all’anno, in Europa 179, in Germania 218 e nel Regno Unito 110.

Anche i dati elaborati ogni anno dalla società di consulenza Kpmg confermano che nel nostro Paese viene penalizzato soprattutto chi produce. Escludendo i contributi sociali, le tasse sull’energia e altri oneri vari che le imprese devono sostenere, infatti, e limitandoci all’Imposta sul reddito delle società (Ires) e all’Imposta regionale sulle attività produttive (Irap), l’impresa italiana media paga il 31,4% dei suoi utili allo Stato ogni anno. Più lo Stato esige, garantendo tra l’altro in cambio servizi tutt’altro che efficienti, più in Italia è difficile fare impresa.


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