99 anni di errori: una svista lunga un secolo
Quando Robinson Crusoe naufraga sull’isola che, per lungo tempo, chiamerà “casa” non ha nulla. È solo, con se stesso e con il vuoto lasciato da (e in chi) non gli è accanto. Poi, arriva Venerdì. E Robinson riconquista la parola, quella che gli serve per dominare, ma anche per (farsi) conoscere.
Quante volte ci siamo pentiti di ciò che (non) abbiamo detto? Quante volte siamo stati feriti, traditi, coccolati da semplici vocaboli messi insieme in un modo piuttosto che in un altro? Quante volte ci siamo trovati davanti ad una persona, o una cosa (una lettera, o un esame) e c’era qualcosa di talmente forte dentro di noi che non siamo riusciti a tradurlo in parole, e non siamo stati in grado di farci capire, forse neanche di capire noi stessi? Parole. A volte, sono tutto ciò che abbiamo. Eppure, non sono “buone” o “cattive”, ma diventano tali per l’(ab)uso che ne facciamo noi, per il significato che attribuiamo loro, o con il quale abbiamo imparato ad associarle.
A volte, però, neanche il dizionario, fonte suprema di saggezza linguistica, può aiutarci. Infatti, qualche giorno fa i maggiori quotidiani (e blog) in lingua inglese riportavano una notizia alquanto ‘speciale’: Stephen Hughes, ricercatore dell’Università del Queensland, Brisbane, Australia, ha trovato un errore nella definizione della parola ‘siphon’ (sifone. In questo caso, non inteso come sinonimo di calorifero), nell’OED (iniziali del dizionario di inglese della Oxford).
Sbagliamo, tutti. Quindi, si potrebbe attribuire la “svista” a questo. In realtà, la situazione è un po’ più complicata (e, permettetemelo, grave) di così.
Uno perché l’errore è stato stampato e ristampato dall’editore per 99 anni (dal 1911).
Due, perché nessuno, prima di Stephen Hughes, aveva avuto la capacità, o l’ardire, o le competenze, di sottoporre il problema all’editore.
Tre, perché i libri (non necessariamente dizionari) dovrebbero aiutarci a migliorare la lingua nei quali sono scritti (imparare la grammatica senza dover memorizzare le regole; incontrare parole delle quali scoprire il significato; assorbire i “trucchi linguistici” dell’autore, quelli che gli – o le – permettono di essere chiaro, comunicativo insomma).
Quattro, perché (per dovere di cronaca ed anche per la stima che nutro verso questa casa editrice) l’errore non riguardava solo quel dizionario. Hughes, infatti, dopo aver scoperto la scorrettezza della definizione, ha controllato quelle fornite da altri editori constatando che il problema era diffuso.
Può, la scorrettezza della definizione di un vocabolo nella sua accezione scientifica influenzare la vita di una persona che, come me, non è mai andata particolarmente d’accordo con la fisica e che forse non userà mai quella parola nella vita? Il problema non è l’uso che io, persona singola, posso o non posso farne, ma la libertà di scelta. Cosa accadrebbe se la definizione scorretta fosse quella di un vocabolo più “comune”? Cosa accadrebbe se un giorno avessi bisogno di utilizzare quella parola e lo facessi nella maniera impropria imparata da un dizionario? Ogni parola usata in modo corretto dà a ciascuno di noi il potere di decidere, se parlare o rimanere in silenzio. E forse è quest’ultima l’opzione che sceglieremo, ma almeno ci saranno consapevolezza, e volontà.
O forse no. Forse le parole rendono solo tutto più complicato. Ed allora auguriamoci che si facciano tante altre scoperte di questo tipo, errori che ci aiutino a sciogliere il problema e realizzino il progetto ipotizzato da Orwell in 1984 (anche se in altro modo): riduciamo il dizionario. Strappiamo le pagine, facciamo in modo che rimangano solo tre semplici parole. Allora, la difficoltà di comunicazione non sarà che un brutto ricordo.