Delicatessen

Creato il 29 aprile 2014 da Maurozambellini
 
Tre dischi che si distinguono per la delicatezza, la grazia, i suoni tra l'acustico e l'elettrico, la bellezza di canzoni senza trucco, make up, ridondanze varie, dischi affatto soporiferi o zuccherosi, anzi, ricchi di bella musica e liriche ispirate. Il primo è un tributo, categoria che non apprezzo particolarmente, salvo quei lavori che ridanno lustro ad artisti scomparsi da tempo e dimenticati,meritevoli di quelle attenzioni che non hanno avuto da vivi. Non amo i tributi ad artisti ancora in attività, grandi o piccoli essi siano, ma questo Looking Into You-A Tribute to Jackson Browne mi ha sciolto il cuore e conquistato, per come è stato realizzato (copertina compresa), per gli artisti coinvolti e le loro versioni, per la calibrata uniformitàdel contenuto e per il fatto che qui c'è uno dei migliori songbook dell'intero american songwriting. Felice anche per aver rimesso sotto i riflettori uno degli artisti più meritevoli, sensibili e umani di tutta la musica rock, oggi ancora argomento di conversazione grazie all'opera di giovani come Jonathan Wilson e i Dawes che hanno riportato in circolazione la sua musica, il suo nome e lo spirito della west-coast music. Sono ventitre le canzoni di Jackson Brown interpretate, divise su due CD con tanto di libretto annesso, con belle fotografie, note ed elenco di musicisti. Un tributo prezioso, allestito con artigianalità sopraffina e versioni stupende, alcune riflettenti la personalità dell'interprete, altre evocative dello stile e della dolce e malinconica voce dell'autore Jackson Browne. Di questa seconda schiera fa parte l'iniziale These Days interpretata da Don Henleycoi Blind Pilot, pacata, rilassata, perfettamente in sintonia col mood del Laurel Canyon dei seventies. Più o meno sulla stessa falsariga una rarefatta e lenta, oltre ché splendida e notturna, Running On Empty di taleBob Schneider, coadiuvato da un ensemble di chitarre, contrabbasso, batteria e pianoforte. Veramente pregevole, come la lunga Fountain of Sorrow delle Indigo Girls dove spicca l'impasto vocale tra le due voci femminili ed il backing vocale al maschile oltre all'ottimo lavoro di Chuck Leavell con piano e Hammond. Cadenze rock in Doctor My Eyes di Paul Thorn, molto simile all'originale l'uso della chitarra di Bill Hinds e applausi a scena aperta a Jimmy LaFave per la sua For Everyman, un interprete che ogni volta lascia di stucco per come sa immergersi nelle composizioni altrui, rispettandone la sensibilità e nello stesso tempo ricavandone originalità ed emozioni. Lo conoscevo nelle sue magnifiche interpretazioni di Dylan ma qui supera sé stesso regalando una versione di For Everyman che non ha nulla da invidiare all''originale, specie in quel crescendo finale di violino, pianoforte e archi. Chapeau. Voce simile a Jackson Browne quella di Griffin Housecon Phil Hurley alla chitarra, Glen Fukunaga al basso e Rodoslav Lorkovic alle tastiere, per una bella copia di Barricades of Heaven mentre Lyle Lovett non rinuncia alla sua nasalità e al suo appeal texano (in particolare la steel guitar di Dean Parks) per una melodicissima OurLady of The Well dove si fanno sentire Leland Sklar e Russell Kunkel della stessa band di Browne ed il bravo Matt Rollings al pianoforte. Poi Lovett si stacca dalle pianure del Texas e con la stessa band si sposta sul Laurel Canyon e con Rosie stempera la malinconia di un abbandono col profumo magico di quei luoghi. Ben Harper impugna Jamaica Say You Will e Bonnie Raitt in compagnia di David Lindley, antico compagno di viaggio di Browne, tratta alla giamaicana Everywhere I Go buttandola sul reggae. Tocca il cuore Eliza Gilkynson con una Before The Deluge unplugged che è una confessione notturna , un lirismo da brividi accentuato dal violino di Warren Hood. Le risponde un sontuoso Kevin Welch con una Looking Into You da scafato crooner che vale il titolo del tributo. Lui canta, ci sono i cori, il pianoforte e l'Hammond B3, da leccarsi i baffi. Keb Mo'apre il secondo CD con la bluesata Rock Me On The Water, Lucinda Williams lacrima dolente in una The Pretenderintinta nella desolata e profonda provincia della Louisiana, si rivedono Karla Bonoffin Something Fine e Marc Cohn in Too Many Angels prima che i coniugi Springsteen faccino il loro compitino con Linda Paloma, pezzo al sabor mariachi, già di per sé non eccelso ma che avrebbe comunque bisogno di un po' di pachuco rock che qui manca assolutamente, e chi ha orecchie per intendere, intenda. Il finale è all'insegna dell'intimismo, Shawn Colvin fa tutto da sola in Call It A Loan, Bruce Hornsby affronta I'm Alive con dulcimer, mandolino, violino e chitarra acustica, Joan Osborne si perde nella malinconia di una Late For The Sky mai così elegiaca, JD Southern chiude con classe (e con una tromba) con My Opening Farewell, splendida conclusione di un tributo che dopo settimane è lì ancora che gira nel mio lettore.
Eliza Gilkyson già presente nel tributo a Jackson Brown è autrice di un album di ballate notturne e crepuscolari intitolato The Nocturne Diaries , suoni delicati e rarefatti che sfiorano il folk ed il country ma mantengono una forte impronta cantautorale, un raffinato ed intimista songwriting al femminile. Amo quelle canzoni che ti vengono in mente di notte e quando le suoni all'alba perdono un po' di quella speciale magia notturna, ecco, No Tomorrow è un'eccezione, è quello che dice la Gilkyson a proposito di una canzone dell'album ma racchiude tutto il senso del disco, un disco che si ascolta nel silenzio della notte, soli e meditabondi. Eliza Gilkyson è nata ad Hollywood più di sessanta anni fa in una famiglia d'arte, sia il padre Terry che il fratello Tony (Love Justice) sono musicisti e anche il figlio Cisco, produttore di questo disco, lavora nell'ambiente musicale. Eliza Gilkyson ha inciso il suo primo lavoro nel lontano 1969 ed in questo lungo arco di tempo ha inciso solo una ventina di album. The Nocturne Diaries è un disco baciato dalla grazia, intenso, ispirato, dove lei racconta i suoi sentimenti ed il suo stato d'animo trasmettendo all'ascoltatore quel particolare spirito che si avverte e si vive soltanto di notte. Un album fatto con poche cose, nessuna sovraincisione, strumentazione spartana, prevalenza di suoni acustici ma non solo, canzoni semplici che arrivano al cuore. Anche qui la copertina è complice delle suggestioni create, lei, magra, bionda, capello corto e camicia country imbraccia la chitarra acustica attorno ad un falò nell'oscurità, i suoi diari notturniposseggono l'intimità delle confessioni ed il fascino dei grandi spazi all'aperto.

Ultima delicatessen è quella offerta dal nuovo gruppo dei Delines, forse il disco più elettrico tra quelli presi esame. Per usare una terminologia vetero-rock i Delines sono un supergruppo formato da musicisti di band americane alt-country messo insieme da Willy Vlautin, scrittore e leader dei Richmond Fontaine, il quale qualche anno fa si è innamorato talmente della voce della cantante dei texani Damnations, Amy Boone, da crearle un gruppo attorno."Ho sempre voluto lavorare con lei fin dal primo giorno che l'ho sentita cantare, quando me ne ha dato la possibilità ho colto la chance e ho passato un anno a scrivere canzoni per lei, canzoni come la sua voce". L'idea nasce nel 2012 e Colfaxè il risultato di quel colpo di fulmine, un disco dove assieme alla Boone e a Vlautin troviamo la tastierista dei Decemberists, Jenny Conlee, la pedal steel di Tucker Jackson dei Minus 5 ed il batterista dei Richmond FontaineSean Oldham, un combo assemblato nel milieu musicale di Portland, Oregon che unisce una consumata attitudine indie con provate esperienze nell'ambito dell'alternative country e del roots rock. Un gruppo che proprio per essere sommatoria di diverse personalità sfugge a facili catalogazioni e mostra un appeal davvero intrigante. Se Willy Vlautin porta in dono una scrittura profonda e particolareggiata, è la voce di Amy Boone, bella, cristallina, soulful, a caratterizzare il lavoro d'esordio, una voce che si appiccica addosso e vi conduce in un universo notturno dove si avvertono le suggestioni di un vecchio film noir, l'eco di una Ricky Lee Jones, l'ombra dei primi, onirici Cowboy Junkies, così come degli Spain piùimpalpabili e jazzy e degli eterei Mazzy Star. Colfax è costituito da ballate avvolgenti e affascinanti, suonimisurati tra contemplazione e ruvidi sussulti elettrici, con la pedal steel ad evocare i grandi spazi dell'ovest ed un intreccio strumentale che orchestra una atmosfera sospesa tra sogno e realtà, tra la notte che se ne va e i primi bagliori dell'alba, in una città vuota e ancora addormentata. Il decor minimalista e splendidamente desolato dei Richmond Fontaine è evidente, anche se la voce di Amy Bonne allenta la crepuscolare tristezza di cui sono portatori, e le storie scritte da Vlautin per Colfax sono storie moderne viste attraverso le lenti del country-soul, del folk-jazz e della roots music, cantate con una voce che viene dall'anima, vulnerabile ed intima, a tratti, come in Flight 31 addirittura esausta. Canzoni come Stateline, I Got My Shadow, I Won't Slip Up fanno pensare alle grandi cantautrici degli anni settanta, ma tra struggenti malinconie (The Oil Rigs At Night), e scampoli di jazz classico (Sandman's Coming) c'è un mondo poetico di moderno folk urbano che vale assolutamente la pena esplorare.
MAURO ZAMBELLINI

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