Della mente e dell’ambiente naturale

Creato il 18 gennaio 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Ultimi articoli

  • Della mente e dell’ambiente naturale 18 January 2014
  • MASSIMO PITTAU – I COGNOMI DELLA SARDEGNA (Ipazia Books, 2014) 18 January 2014
  • Dal Porcellum alla “puttanata”: con la benedizione di Cacciari e di Travaglio che Renzi vada a parlare con Berlusconi, senza “turarsi il naso”. E sulle curiose logiche politiche di Pippo Civati. 17 January 2014
  • IL LATINO DEI PRIMI SECOLI (IX-VII a. C.) E L’ETRUSCO 16 January 2014
  • Gramsci e la questione dell’intellettuale collettivo 16 January 2014
  • Dal V-day al V-attimo: sul “pensiero debole” di Gianni Vattimo per il M5S e sui rischi del mo-lo-clicco strano. 16 January 2014

di Michele Marsonet. Uno dei problemi che più hanno assillato i filosofi, sin dagli esordi del pensiero occidentale, è quello dell’effettiva corrispondenza fra le nostre credenze e il mondo. Lo spazio logico-razionale di cui soltanto gli esseri umani sembrano disporre assicura loro, da un lato, una certa libertà nei confronti del mondo naturale, ma costituisce pure, dall’altro, una sorta di scorciatoia verso l’idealismo disponibile per tutti coloro che sono interessati a utilizzarla. Di qui l’invocazione della necessità di vincoli esterni che possano in qualche modo impedire la mancanza di connessioni tra i nostri enunciati (e le nostre credenze) e una realtà vista come indipendente dal pensiero e dal linguaggio.

E’ possibile trovare una via d’uscita da tali difficoltà modificando in maniera radicale quella che – fino ai nostri giorni – è stata la visione tradizionale dei rapporti tra mente e mondo. Un atteggiamento assai diffuso colloca la mente – e il soggetto – al centro della natura umana, considerando l’esperienza percettiva come qualcosa che avviene da qualche parte (ma senza specificare esattamente “dove”) e in qualche modo (ma senza specificare esattamente “come”) nel dominio “esterno”. Ed è interessante notare a tale riguardo che la celebre metafora proposta da Quine in “Due dogmi dell’empirismo” si rivela, in fondo, coerente con la rappresentazione tradizionale, anche se di solito essa viene vista come un suo completo superamento: “Tutte le nostre cosiddette conoscenze o convinzioni, dalle più fortuite questioni di geografia e di storia alle leggi più profonde della fisica atomica o financo della matematica pura e della logica, tutto è un edificio fatto dall’uomo che tocca l’esperienza solo lungo i suoi margini. O, per mutare immagine, la scienza nella sua globalità è come un campo di forza i cui punti limite sono l’esperienza. Un disaccordo con l’esperienza alla periferia provoca un riordinamento all’interno del campo; si devono riassegnare certi valori di verità ad alcune nostre proposizioni”.

Questa metafora della “rete” (o campo di forza) altro non è che una versione leggermente modificata della visione della mente e del suo posto nella natura cui ho appena accennato. Per cambiare le carte in tavola ed evitare le difficoltà di cui sopra dobbiamo, per così dire, rovesciare la rete come un guanto. Il risultato sarà che gli elementi che stanno alla periferia nella metafora di Quine – e in particolare il rapporto agente/mondo – diventano, invece, centrali. In altre parole, l’interazione agente/ambiente diviene il punto di partenza dell’intero processo, e il pensiero non è più visto come un’attività che si svolge esclusivamente a livello interno (e in maniera indipendente da tale interazione). Seguendo questa linea di ragionamento, la mente non può essere separata artificialmente dai fenomeni naturali; essa ha una lunga storia di tipo evolutivo e, essenzialmente, dev’essere considerata come una particolare (e importantissima) variante dell’interazione agente/mondo.

Si deve pure notare, a questo proposito, che la distinzione tra “interno” ed “esterno” non è affatto netta e precisa come la summenzionata visione tradizionale vorrebbe far credere, e ciò significa che è pressoché impossibile separare la mente da qualche tipo di ambiente. Senza dubbio tale riconoscimento implica che siamo autorizzati a pensare ad altri generi di menti (extraterrestri, per esempio) che, a loro volta, non possono essere separati da altri tipi di ambiente. Dunque, il modo in cui il soggetto ha esperienza del mondo riveste un’importanza fondamentale tanto per il pensiero quanto per il linguaggio. Quando cerchiamo di descrivere i fenomeni subatomici utilizzando il linguaggio dell’esperienza quotidiana, incontriamo difficoltà enormi proprio perché i nostri concetti non si armonizzano con quella dimensione della realtà.    Da questo mutamento di prospettiva si può trarre una conseguenza molto importante. A differenza di coloro che sostengono che la struttura del mondo viene riflessa da quella del nostro linguaggio, non ritengo vi siano ragioni cogenti per affermare che il linguaggio è una guida affidabile quando si vuole comprendere come la realtà – in questo caso la realtà-indipendente-da-noi – è strutturata. Esiste ovviamente una connessione naturale fra i sistemi linguistici e il mondo, ma essa riguarda l’ontologia del senso comune.

Ma l’ontologia scientifica non viene affatto riflessa, non appena si rammenti l’enorme complessità dei modelli formali cui gli scienziati fanno ricorso nei loro tentativi di spiegazione. E’ in fondo un truismo dire che nella visione del mondo del senso comune i nomi singolari sono associati a oggetti, e che inoltre noi organizziamo la vita quotidiana seguendo tale modello. Ancora una volta occorre ribadire che ciò ha a che fare con la “nostra” realtà; non vi sono buone ragioni per credere che le proprietà del linguaggio in cui i nomi funzionano così bene rispecchino le proprietà della realtà non linguistica. Tra l’altro, è proprio questo il motivo che induce a mettere in dubbio l’affermazione di Donald Davidson secondo cui “quando mettiamo in evidenza i tratti generali del nostro linguaggio, noi mettiamo in evidenza i tratti generali della realtà”.

Ciò consente di dire qualcosa di più circa una preoccupazione già presente nella filosofia dei secoli passati, e che viene ritenuta importante anche da buona parte del pensiero contemporaneo. La preoccupazione è, per metterla in termini schematici, quella di “perdere il mondo”, dove il mondo è ovviamente quello “esterno”. Detta preoccupazione sorge proprio perché il soggetto viene concepito come un’entità separata dall’ambiente di cui fa, invece, parte integrante, e l’ambiente esterno finisce col diventare, a questo punto, qualcosa la cui presenza dev’essere giustificata. Ma tutto ciò è assurdo: la preoccupazione non è fondata. In ultima analisi, il problema reale non è perdere il mondo, quanto l’avere di esso una conoscenza insufficiente. La paura di perdere il mondo sorge solo se l’attività concettuale viene totalmente separata dal mondo. Tuttavia l’attività concettuale non si regge da sola. Parametri e vincoli fisici entrano in maniera essenziale nella formazione dei concetti, e non v’è modo di separare nettamente la dimensione dei concetti da quella dei fatti.

Ne segue che non soltanto il linguaggio e l’attività concettuale, ma anche i vincoli fisici sono importanti quando si parla di schemi concettuali o di visioni del mondo: la nostra concettualizzazione “non” sarebbe la stessa se vivessimo in un diverso tipo di ambiente naturale. D’altro canto, non possiamo nemmeno immaginare di essere totalmente staccati dalla realtà. In un mondo concettuale troviamo pur sempre qualche tipo di riferimento al nostro mondo fisico, e ciò vale anche per le più astratte speculazioni filosofiche. Dovrebbe comunque essere chiaro che alla base delle mie riflessioni si trova una concezione del linguaggio “non” inteso come entità o attività extra-mondana.

E’ un dato di fatto che gli esseri umani non vivono soltanto “in” un ambiente, ma anche “grazie a” (per mezzo di) un ambiente. Ecco perché il contributo ambientale ai processi vitali non è qualcosa che possiamo trascurare in quanto inessenziale ai fini dell’attività concettuale. Le funzioni caratteristiche dei soggetti umani sono ciò che sono proprio per il fatto che l’ambiente specifico in cui essi vivono interagisce in un modo particolare con i loro organismi. E ciò significa, inoltre, che gli agenti sono sistemi, e non già menti imprigionate in una struttura fisica. La linea di confine tra agente e ambiente non è così netta come solitamente si crede. Come può quindi un agente perdere il mondo (esterno) se egli vive non solo nel suo ambiente, ma anche grazie a esso? Invece di preoccuparsi della possibilità di perdere il mondo, è opportuno comprendere che la conoscenza della realtà di cui facciamo parte non è mai completa e precisa a causa dei nostri limiti strutturali. Almeno per quanto concerne gli esseri umani, la natura potrebbe essere inesauribile dal punto di vista cognitivo.

Featured image, Sigmund Freud (1920), sulla copertina della rivista Life (1938).

Tagged as: Attualità, Cultura, digital journalism, filosofia, Giornalismo online, michele marsonet, opinioni online, Rosebud - Giornalismo online

Categorised in: Filosofia, Michele Marsonet, Tutti gli articoli


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :