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“Dello spirito: Heidegger e la questione” di Jacques Derrida, o dello “spirito” hitleriano. Una lettura critica di…

Creato il 21 luglio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
Jacques Derrida by Pablo Secca

Jacques Derrida by Pablo Secca

Giuseppe Leuzzi. La vera “questione” è l’antisemitismo di Heidegger. Il terreno di coltura è lo Spirito, che non è l’esprit francese ma il Geist, con i connessi geistig  e geislich. Che Heidegger non usa prima, se non tra diminutive virgolette, e anzi sconsiglia, ma dal “Discorso del Rettorato”, 1933, e poi per una ventina d’anni a profusione, fino alla lettura di Trakl. Cioè fino alla riabilitazione – questo a Derrida è mancato? Ma no, anche dopo: fino alla fine, all’intervista a futura memoria allo “Spiegel”, sotto il nome di destino, la Führung, il Gemüt, il Volk (il Volk…), il Dio nascosto, l’alba che non può mancare, il viaggio incognito. Fino al ritorno, dopo la sconfitta e il silenzio imposto nei pochi anni fino alla riabilitazione, del “destino inevitabile”, tra l’Occidente e l’’Oriente assenti (ben presenti, ma “vuoti”), via Trakl. Dopo averlo temprato via Hölderlin e (l’incolpevole) chelling. Col “fuoco” e la “fiamma”, spirituali beninteso, che tanto infiammano un ignaro Derrida.

Il pensiero di Heidegger è perfino trasparente, pur nella sua sorniona allusività – altrove si direbbe mafiosità. Che Derrida, pur appassionato delle decifrazioni, trascura: la questione è “dei pensieri e degli impensieri di Heidegger… Il testo è di una conferenza a Parigi, il 14 marzo 1987, al Collège International de Philosophie, sul tema: “Heidegger: questioni aperte”.Raddoppiata a stampa dalle note.. Si penserebbe al nazismo, cui l’editore francese rinvia, riproponendo il saggio-conferenza in contemporanea con la traduzione italiana. Ma è parola e tema che Derrida virtuosisticamente evita.Allora. Di spirito non si parla in “Essere e tempo”, 1927, se non, appunto, tra virgolette. “E tuttavia, con la parola, seppure tra virgolette, qualcosa dello spirito, e senza dubbio ciò che fa segno verso il Gemüt, si lascia sottrarre alla metafisica cartesiamo-hegeliana della soggettività”. Che “Essere e tempo”  rifiuta. Sembra chiaro, ma Derrida sorvola. Anche sul Gemüt, che più che intraducibile sembra la saracinesca nazionale e esclusiva che si pone a ogni altro (destino, popolo, etc.), di una soggettività maggiore. Sono le virgolette che eccitano Derrida. Le virgolette non sono sempre le stesse: “È la legge delle virgolette. A due a due montano la guardia: alla frontiera o davanti ala porta, preposte al soglio in ogni caso, e questi luoghi sono sempre drammatici”. Nientedimeno – però la filosofia delle virgolette mancava.Se non che un fatto c’è. Il “Discorso del Rettorato” toglie le virgolette e celebra lo spirito addirittura in fiamme. Anzi il Geist, una cosa che “non c’è nella Grecia dei filosofi più che in quella de Vangeli, per non dire della sordità romana: il Geist è fiamma. E questo non si direbbe e dunque non si penserebbe che in tedesco”. Sembrerebbe che Derida abbia capito e detto tutto, e invece no. Se non è una sottilissima ironia, la sua è cecità, per quanto arzigogoli. Nell’“Introduzione alla metafisica”, due anni dopo il “Rettorato”, c’è “una specie di diagnosi geo-politica, di cui tutte le risorse e tutti i riferimenti tornano allo spirito, alla istorialità spirituale, con i concetti già analizzati: spirituali sono la caduta o la decadenza (Verfall), spirituale è anche la forza”.Capito? No. Il senso è chiaro, dell’improvvisa discesa dello spirito, ma Derrida a questo punto devia sull’animalità. Su cui impegna una lunga esposizione critica. E sempre sulla imagerie verbale – das Welten von Welt, il divenire-momdo del mondo, die Welt ist, in dem sie weltet, il mondo è in quanto si mondanizza (si mondializza?): un’ubriacatura (la Umdeutung  e la Missdeutung lo fanno impazzire).La “questione” viene in nota, a metà conferenza-saggio, ma per opporre a Heidegger, al quale si contesta “d’aver partecipato alla persecuzione di Husserl, suo estimatore e patrono accademico, lo stesso Husserl. Che in “La crisi dell’umanità europea e la filosofia” (“testo pronunciato nel 1935, a Vienna!”) esclude dalla “spirito europeo”, nelle sue stesse parole, “gli Eschimesi, o gli Indiani dei mercatini, e gli Zingari che vagabondano in permanenza in tutta Europa”, lui “che pure  si sapeva «non ariano» lui stesso”, mentre vi includeva i dominion  britannici e gli Usa – insomma, uno che non meritava di essere trattato bene.La “questione” storico-politica l’aveva peraltro chiaramente detta nei due testi dello Spirito, maiuscolo e senza virgolette, del 1933 e del 1935, il “Rettorato” e l’“Introduzione” – benché alla sua maniera; allusiva, iniziatica (ci si ricorderà un giorno dell’impressione netta che “Essere e tempo” produsse nel 1927, fuori da ogni sentore razzista, su Hans Jonas: “Non è una filosofia, ma un affare segreto, pressoché una nuova credenza”: la crisi dello “spirito europeo” si è prodotta nella prima metà del secolo XIX, per “il collasso dell’idealismo tedesco”. Comincia qui per Heidegger, nella sintesi di Derrida, “la vacanza dello spirito, la dissoluzione della forza spirituale, il rifiuto di ogni domanda originaria sui fondamenti”. E per lo stesso Derrida, che abbandona per una volta  il gusto per la parola e il tedesco, e assimila la “crisi dello spirito” di Heidegger non soltanto a quella  dell’ebreo Husserl ma anche a quella del latino Valéry, benché del tutto fuori contesto, alla fine della guerra nel 1919 – nella stessa esposizione che Derrida ne fa in una lunghissima nota Valéry non c’entra nulla, è solo il vezzo citazionista di Derrida, ma rafforza certo il piedistallo a Heidegger.La “questione” è Derrida, e il suo rapporto – suo come di tanti altri, è vero, ma molti sotto suo influsso – con la filosofia tedesca post-idealistica, della crisi, della fenomenologia e dell’ontologia.Essendo personalmente soprattutto appassionato delle parole, e di Heidegger in quanto mago della parola – a doppio taglio: come poeta in proprio inventivo, e come furbo svevo-alemanno che dice e non  dice, reticente. Il tedesco di Heidegger è per Derrida una selva incantata. Se ne potrebbe arguire della filosofia come possessione – il daimon qui non c’è, ma c’è molto deinon, nel senso di pauroso, terribile.L’ultima pagina si legge come una parodia, purtroppo involontaria, dello Heidegger che profetizza rinascite (recessi temporanei e albe future, marce, destini incomprimibili, tra Occidente e Oriente – Derrida dimentica che l’Oriente di Heidegger era ben preciso, solido e minaccioso: la Russia sovietica): “Voi dite ciò che si può dire di più radicale quando si è cristiani oggi”, ed ebrei: “A questo punto, soprattutto quando parlate di Dio, di recesso, di fiamma e di scrittura di fuoco nella promessa del ritorno verso il paese della pre-archi-originalità, non è sicuro che non riceviate una risposta analoga e un’eco simile dal mio amico e correligionario, l’ebreo messianico. Non sono sicuro che il mussulmano e qualcun altro non si unirebbero al concerto e all’inno”.Fa senso rileggere una riflessione su Heidegger appassionata, acuta, pignola, in ceto senso devota, per giunta di un filosofo ebreo, anche se senza kipah, dopo che l’antisemitismo di Heidegger è diventato manifesto. E – benché si tenti di coprirlo di “storia dell’essere” – volgare: la cospirazione giudaica mondiale. Non che il nazismo di Heidegger (nazismo e non nazionalismo – si confondono ad arte, mentre sono distinti e anche antitetici: Jünger per esempio sta in un altro mondo che Heidegger, anche se lui ha fatto la guerra per Hitler e Heidegger si è imboscato) non fosse noto prima, con corteggio di antisemitismo spicciolo (posti, denunce, radiazioni)…  Bisognerà ripensare il nazismo? Gli anni 1938-1942 la guerra la Germania l’aveva già vinta, senza perdite.Jacques Derrida, Dello spirito: Heidegger e la questione, SE, pp. 142 € 19

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