Delusioni cinematografiche: Everest / Tutte lo vogliono

Creato il 08 ottobre 2015 da Af68 @AntonioFalcone1

Non so, amici lettori, se sia mai capitato anche a voi di uscire da una sala cinematografica con in mente varie perplessità riguardo la visione di un film, suscitate non tanto dalla costruzione complessiva, nell’insieme gradevole, quanto dalla sensazione che non si sia riusciti a conferire piena valenza nella resa sullo schermo ad un’idea di base comunque valida, foriera sulla carta di un valido intrattenimento, inteso non solo da un punto di vista propriamente ludico ma anche nell’ambito di una narrazione avvolgente ed empatica, capace di prenderti nelle spire del racconto e coinvolgerti relativamente alle vicende dei protagonisti. Fra le recenti visioni ad avermi lasciato tal tipo di sentore, dopo l’appagamento completo suscitatomi da Inside Out, posso annoverare, con un certo rammarico, due pellicole diverse nel genere ma accomunate appunto dal disappunto sopra descritto, Everest, per la regia di Baltasar Kormákur, che ha aperto la 72ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e Tutte lo vogliono, commedia italiana diretta da Alessio Maria Federici.

Gli sceneggiatori di Everest, William Nicholson e Simon Beaufoy, hanno preso come soggetto il libro Into the Air (1997, Aria sottile) del giornalista Jon Krakauer (nel film interpretato da Michael Kelly) , fra i componenti di una delle due spedizioni in viaggio verso “il tetto del mondo” in data 10 maggio 1996, quella guidata da Rob Hall e l’altra affidata a Scott Fischer (interpretati rispettivamente da Jason Clarke e Jake Gyllenhall). La storia messa al servizio del regista Kormákur appare quindi volta a porre al centro dell’iter narrativo la montagna del titolo, che dovrebbe ergersi contro l’ambizione umana, silente e maestosa, come una sorta di biblico Leviatano. La suddetta ambizione si esterna al di là di un senso d’onnipotenza, per concretizzarsi essenzialmente in una lotta dell’essere umano nei confronti della propria stessa fragilità, nel tentativo di offrire un qualche significato ad una esistenza che non riesce a trovare nella consueta quotidianità, lo svolgimento giornaliero di quanto necessario a far andare avanti famiglia ed attività lavorativa, una buona dose di satisfattivo “eroismo”.

Josh Brolin

Una buona premessa, almeno in base alla mia interpretazione, peccato che Kormákur appaia interessato più ad una semplice visualizzazione cronachistica dell’evento che ad una sia pur minima drammaticità d’impatto, preferendo un rapido tratteggio psicologico dei vari protagonisti della scalata, lasciando che il significato delle loro motivazioni, comunque esternate, resti affidato ad un “perché?” sospeso a mezz’aria, pur se idoneo a suffragare il senso d’inutilità di tali spedizioni. Il puro calcolo commerciale (perché non farlo, se, pagando, lo si può fare, in buona sostanza) sembra aver ormai soppiantato, infatti, un forse più giustificabile e primordiale senso dell’avventura, nella rispettosa consapevolezza di come sia sempre la Natura a giocare l’ultima carta. Lo si può intuire dalla pur schematica contrapposizione fra i due capi delle diverse cordate, il prudente Rob e il più spericolato Scott (per quanto Gyllenhall, dei vari interpreti risulti il meno valorizzato dallo script) e soprattutto dall’esclamazione di uno dei sedicenti scalatori, Beck Weathers (Josh Brolin), costretto a fare la fila “come al supermercato” nell’attraversare un crepaccio.

Il regista lascia che tutta scorra nell’episodico susseguirsi dei vari avvenimenti, sempre affidandosi alla fisicità della montagna, splendidamente resa dalla fotografia di Salvatore Totino nel mix di riprese dal vero (Nepal e Alpi Italiane) e in studio (Cinecittà e Pinewood Studios), anche se credo che il plauso definitivo debba andare al sonoro, particolarmente coinvolgente, anche nei “suoni” rilasciati dai passi sul suolo innevato. Si offre risalto risalto alla vertigine tangibile della vetta, demandando riguardo la tensione emotiva e il sentore spirituale al confronto tra ciò cui si va incontro e quanto si sta per lasciare.
Da un lato la tragedia in cima alla vetta, fra disorganizzazione e cedimenti fisici, dall’altro il calore offerto dalla tranquillità familiare, emergente dalla visualizzazione dei dialoghi telefonici di Beck e Rob con le rispettive consorti, Peach (Robin Wright) e Jan (Keira Knightley), quest’ultima in attesa di una bambina, oltre che dai contatti col campo base, impossibilitato a prestare soccorsi causa la forte tempesta di neve che si è venuta a scatenare.

Nella percezione del pericolo imminente più che del suo effettivo insinuarsi, non scatta alcuna empatia, pur comprendendo come si sia voluto probabilmente, alzare il velo di un pudico rispetto, non riuscendo però, se non a tratti, a centrare il bersaglio di un’efficace mediazione fra spettacolarità, tensione narrativa e compostezza emotiva, che rendono Everest, in definitiva, un’opera godibile, da un punto di vista visivo in particolare, ma non del tutto entusiasmante. Riguardo Tutte lo vogliono, già il solo sapere della presenza di più mani in fase di scrittura (Alessandra Di Pietro, Valentina Gaddi, Maria Teresa Venditti, Mario Ruggeri, Michela Andreozzi, oltre al regista Federici) ha apportato ai polsi il proverbiale tremore delle vene. Lasciando rapidamente da parte ogni prevenzione, restavo incuriosito dal soggetto, che sulla carta mi sembrava interessante.
Nello specifico, ma non è la prima volta da qualche anno a questa parte, notavo una ritrovata sensibilità degli autori nel trovare spunto da temi sociali o di costume quanto mai attuali.

E’ quanto accadeva con gli artefici della “vecchia” commedia all’italiana, offrire proscenio al reale narrando una storia che non lo trasmuti però in forma di amena favoletta, bensì ne renda opportuna caratterizzazione con le armi dell’ironia e del sentimento, miscelando malinconia e riflessione, toni grotteschi e lievemente cinici. Purtroppo non è questo il caso di Tutte lo vogliono, che parte da una tematica interessante, l’anorgasmia, l’impossibilità o difficoltà di raggiungere l’orgasmo durante il rapporto sessuale, dalla quale è afflitta Chiara (Vanessa Incontrada, a volte forse un po’ troppo impostata), aristocratica food designer. Poco propensa a lasciarsi andare emotivamente, anche a causa di infelici esperienze passate, la donna affronta sedute collettive di psicoterapia nella speranza di risolvere il problema. Dall’altro lato, a lei contrapposto, ecco l’idealista sentimentale Orazio (Enrico Brignano), genuino e ruspante, romantico e sognatore, professione sciampista per cani in un negozio d’animali.

Vanessa Incontrada

Per l’attore romano è il consueto ruolo di ragazzone dall’animo gentile, appena più misurato, qui reso anche con una certa teatralità, visto il solito vezzo, nella mancanza di altra idonea ed incisiva caratterizzazione, registica e di scrittura, di affidare al protagonista la narrazione in prima persona. Attraverso il dialogo con lo scimpanzé Sebastiano, accompagnato da Orazio a trovare la sua compagna in Germania, durante il viaggio di ritorno a bordo di un vecchio Bulli lo vediamo intento a raccontare all’amico primate le sue traversie sentimentali, evidentemente dimentico di quanto si tramanda da tempo in quel di Hollywood*, un episodico e frammentario andirivieni fra oggi e ieri.
Si farà ritorno nuovamente al presente in un finale tutto sommato non poi così imprevedibile, come forse si era prospettato in fase di sceneggiatura.
Peccato che l’incontro-scontro fra Chiara e il candido giuggiolone, nel gioco degli equivoci messo in campo come struttura portante, appaia sin troppo forzato, mai propriamente fluido ed alchemico, confondendo la farsa col grottesco.

Del tutto inutile, poi, l’ulteriore contrapposizione fra er core bono di Orazio e la perfezione ostentata del bello da depliant, Raffaello (Giulio Berruti), sulla carta il partner ideale per Chiara. Rimane quindi sullo sfondo l’idea di come il vero e proprio godimento fisico possa essere conferito non solo dalla bontà della “prestazione” in sé, ma, per quanto banale possa sembrare, anche dallo stare insieme con la persona da cui ci si sente intimamente attratti e coinvolti, nel coinvolgimento dato dall’accettazione reciproca, al di là di un “per sempre” relazionale, che potrebbe comunque costituire un eventuale prosieguo. Anche in tal caso, dunque, una buona premessa, il solito tentativo di riallacciarsi agli stilemi propri della nostra migliore commedia, gettati alle ortiche della pretestuosità del doppio senso “elegante” solo in quanto espresso in forma di richiamo alla vecchia scuola (a partire dall’uccello in chiesa …), nell’incapacità conclamata di proporre qualcosa di fresco e propriamente originale pur richiamandosi al passato.

Questo è tutto, cari lettori, spero di non avervi annoiato con la cronaca di queste mie recenti visioni cinematografiche, due film non propriamente convincenti, per quanto Everest, sempre a mio avviso, possa contare su una valida resa globale, tale da non far rimpiangere il prezzo del biglietto (eventuale supplemento del 3D a parte, essendo il film del tutto godibile nella “normale” dimensione), mentre Tutte lo vogliono, ahimè, rimane sospeso nel limbo delle solite commedie nostrane “seriali”, girate nell’equivoco, ricercato e voluto, che egualmente seriale sia il pubblico nel seguirle e conferire loro ragion d’essere.

*Mai recitare accanto a bambini o animali, il pubblico potrebbe non capire la differenza (vado a memoria, la citazione potrebbe non essere del tutto corretta).


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