Gli sceneggiatori di Everest, William Nicholson e Simon Beaufoy, hanno preso come soggetto il libro Into the Air (1997, Aria sottile) del giornalista Jon Krakauer (nel film interpretato da Michael Kelly) , fra i componenti di una delle due spedizioni in viaggio verso “il tetto del mondo” in data 10 maggio 1996, quella guidata da Rob Hall e l’altra affidata a Scott Fischer (interpretati rispettivamente da Jason Clarke e Jake Gyllenhall). La storia messa al servizio del regista Kormákur appare quindi volta a porre al centro dell’iter narrativo la montagna del titolo, che dovrebbe ergersi contro l’ambizione umana, silente e maestosa, come una sorta di biblico Leviatano. La suddetta ambizione si esterna al di là di un senso d’onnipotenza, per concretizzarsi essenzialmente in una lotta dell’essere umano nei confronti della propria stessa fragilità, nel tentativo di offrire un qualche significato ad una esistenza che non riesce a trovare nella consueta quotidianità, lo svolgimento giornaliero di quanto necessario a far andare avanti famiglia ed attività lavorativa, una buona dose di satisfattivo “eroismo”.
Josh Brolin
Una buona premessa, almeno in base alla mia interpretazione, peccato che Kormákur appaia interessato più ad una semplice visualizzazione cronachistica dell’evento che ad una sia pur minima drammaticità d’impatto, preferendo un rapido tratteggio psicologico dei vari protagonisti della scalata, lasciando che il significato delle loro motivazioni, comunque esternate, resti affidato ad un “perché?” sospeso a mezz’aria, pur se idoneo a suffragare il senso d’inutilità di tali spedizioni. Il puro calcolo commerciale (perché non farlo, se, pagando, lo si può fare, in buona sostanza) sembra aver ormai soppiantato, infatti, un forse più giustificabile e primordiale senso dell’avventura, nella rispettosa consapevolezza di come sia sempre la Natura a giocare l’ultima carta. Lo si può intuire dalla pur schematica contrapposizione fra i due capi delle diverse cordate, il prudente Rob e il più spericolato Scott (per quanto Gyllenhall, dei vari interpreti risulti il meno valorizzato dallo script) e soprattutto dall’esclamazione di uno dei sedicenti scalatori, Beck Weathers (Josh Brolin), costretto a fare la fila “come al supermercato” nell’attraversare un crepaccio.
Il regista lascia che tutta scorra nell’episodico susseguirsi dei vari avvenimenti, sempre affidandosi alla fisicità della montagna, splendidamente resa dalla fotografia di Salvatore Totino nel mix di riprese dal vero (Nepal e Alpi Italiane) e in studio (Cinecittà e Pinewood Studios), anche se credo che il plauso definitivo debba andare al sonoro, particolarmente coinvolgente, anche nei “suoni” rilasciati dai passi sul suolo innevato. Si offre risalto risalto alla vertigine tangibile della vetta, demandando riguardo la tensione emotiva e il sentore spirituale al confronto tra ciò cui si va incontro e quanto si sta per lasciare.
Da un lato la tragedia in cima alla vetta, fra disorganizzazione e cedimenti fisici, dall’altro il calore offerto dalla tranquillità familiare, emergente dalla visualizzazione dei dialoghi telefonici di Beck e Rob con le rispettive consorti, Peach (Robin Wright) e Jan (Keira Knightley), quest’ultima in attesa di una bambina, oltre che dai contatti col campo base, impossibilitato a prestare soccorsi causa la forte tempesta di neve che si è venuta a scatenare.
Nello specifico, ma non è la prima volta da qualche anno a questa parte, notavo una ritrovata sensibilità degli autori nel trovare spunto da temi sociali o di costume quanto mai attuali.
E’ quanto accadeva con gli artefici della “vecchia” commedia all’italiana, offrire proscenio al reale narrando una storia che non lo trasmuti però in forma di amena favoletta, bensì ne renda opportuna caratterizzazione con le armi dell’ironia e del sentimento, miscelando malinconia e riflessione, toni grotteschi e lievemente cinici. Purtroppo non è questo il caso di Tutte lo vogliono, che parte da una tematica interessante, l’anorgasmia, l’impossibilità o difficoltà di raggiungere l’orgasmo durante il rapporto sessuale, dalla quale è afflitta Chiara (Vanessa Incontrada, a volte forse un po’ troppo impostata), aristocratica food designer. Poco propensa a lasciarsi andare emotivamente, anche a causa di infelici esperienze passate, la donna affronta sedute collettive di psicoterapia nella speranza di risolvere il problema. Dall’altro lato, a lei contrapposto, ecco l’idealista sentimentale Orazio (Enrico Brignano), genuino e ruspante, romantico e sognatore, professione sciampista per cani in un negozio d’animali.
Vanessa Incontrada
Per l’attore romano è il consueto ruolo di ragazzone dall’animo gentile, appena più misurato, qui reso anche con una certa teatralità, visto il solito vezzo, nella mancanza di altra idonea ed incisiva caratterizzazione, registica e di scrittura, di affidare al protagonista la narrazione in prima persona. Attraverso il dialogo con lo scimpanzé Sebastiano, accompagnato da Orazio a trovare la sua compagna in Germania, durante il viaggio di ritorno a bordo di un vecchio Bulli lo vediamo intento a raccontare all’amico primate le sue traversie sentimentali, evidentemente dimentico di quanto si tramanda da tempo in quel di Hollywood*, un episodico e frammentario andirivieni fra oggi e ieri.
Si farà ritorno nuovamente al presente in un finale tutto sommato non poi così imprevedibile, come forse si era prospettato in fase di sceneggiatura.
Peccato che l’incontro-scontro fra Chiara e il candido giuggiolone, nel gioco degli equivoci messo in campo come struttura portante, appaia sin troppo forzato, mai propriamente fluido ed alchemico, confondendo la farsa col grottesco.
Del tutto inutile, poi, l’ulteriore contrapposizione fra er core bono di Orazio e la perfezione ostentata del bello da depliant, Raffaello (Giulio Berruti), sulla carta il partner ideale per Chiara. Rimane quindi sullo sfondo l’idea di come il vero e proprio godimento fisico possa essere conferito non solo dalla bontà della “prestazione” in sé, ma, per quanto banale possa sembrare, anche dallo stare insieme con la persona da cui ci si sente intimamente attratti e coinvolti, nel coinvolgimento dato dall’accettazione reciproca, al di là di un “per sempre” relazionale, che potrebbe comunque costituire un eventuale prosieguo. Anche in tal caso, dunque, una buona premessa, il solito tentativo di riallacciarsi agli stilemi propri della nostra migliore commedia, gettati alle ortiche della pretestuosità del doppio senso “elegante” solo in quanto espresso in forma di richiamo alla vecchia scuola (a partire dall’uccello in chiesa …), nell’incapacità conclamata di proporre qualcosa di fresco e propriamente originale pur richiamandosi al passato.
*Mai recitare accanto a bambini o animali, il pubblico potrebbe non capire la differenza (vado a memoria, la citazione potrebbe non essere del tutto corretta).