Democrazia culturale? No, grazie

Creato il 31 maggio 2010 da Okamis

Quella appena passata è stata una settimana particolarmente densa d’impegni, da cui la decisione di concentrare il poco tempo libero sull’articolo che ora state leggendo. Articolo che in verità non dirà nulla di particolarmente nuovo per chi è solito bazzicare da queste parti, ma che spero vivamente possa andare a incastrarsi all’interno di un più vasto mosaico. Già, perché oggi è la 1a Giornata Nazionale contro l’Editoria a Pagamento.

Ma andiamo con ordine…

Alcuni mesi fa la casa editrice Zero91 lancia il logo di “NoEAP”. Lo scopo è semplice: evidenziare la propria assoluta estraneità rispetto a quel morbo chiamato editoria a pagamento. Il logo non è però fine a se stesso: vuole anzi essere il simbolo di una lotta più vasta volta a smascherare quelle aziende (chiamarli editori mi risulta impossibile) che, dietro la scusa della “democratizzazione della cultura” (ci tornerò), hanno come solo obiettivo intascare lauti compensi da qualunque persona desiderosa di vedere la propria opera stampata su carta (come se ora la pubblicazione fosse diventato un diritto inalienabile sancito da Amnesty International). Insomma, copisterie mascherate da case editrici.

Tra i primi atti di questa battaglia c’è la scrittura di un libro. Ma non un libro qualunque: parlo del PEGGIOR-LIBRO-CHE-MENTE-UMANA-POTREBBE-MAI-CONCEPIRE (P.L.C.M.U.P.M.C.). Un’opera, per intendersi, piena di refusi grammaticali, con paragrafi e addirittura capitoli tagliati, trasudante ripetizioni, campi di POV privi di alcun senso… Insomma, una merda (che, se siete curiosi di leggere, trovate QUI). E qui arriva il bello: la merda in questione viene spedita a varie CE a pagamento per vedere se esiste qualcuno disposto a pubblicarla, oltretutto in duplice copia con nominativi e titoli completamente diversi (non sia mai che si scopra che i libri pubblicati non vengono nemmeno letti in fase di scrematura).

Ora, vivessimo in un mondo normale, un tale scempio non verrebbe nemmeno preso in considerazione. Ma si sa, noi non viviamo in un mondo normale. Ecco allora fioccare gli esiti positivi (doppi e identici!), oltretutto talmente fumosi da far capire anche a un sasso che si tratta di risposte precompilate. Eccone uno:

“XXXXXXXX” mette in luce una capacità di raccontare di intuire e rappresentare il senso di una figura, di un personaggio, di una situazione, di un destino.

La “linea di svolgimento” del racconto è tracciata da un gusto per la chiarezza, l’incisività, la franchezza e quindi l’accurato tentativo di evitare giochi puramente sintattici o concettuali, la retorica che si maschera sotto tante specie, l’astrazione dalla realtà.

Solido nell’impianto, ben costruito nella trama, il racconto si articola grazie ad un linguaggio accurato, dove ogni parola, ogni similitudine, hanno l’efficacia dell’originalità e della freschezza, e la peculiarità delle situazioni è sempre colta al volo, con pochi tratti essenziali; che è poi l’unico modo per dare corpo vita e soprattutto credibilità ai personaggi e alle situazioni. Difatti, con questo scritto, Lei ha saputo mutare un’esperienza – reale o verosimile – significativa di vita in scrittura, facendone così uno dei tramiti al tratteggio del flusso della comunicazione e della conoscenza.

Questo il risultato del primo “esperimento”. Ma siamo solo agli inizi.

Ulteriore e fulgido esempio d’ipocrisia è infatti quanto asserito da Giorgia Grasso, direttore editoriale del Gruppo Albatros – Il Filo (forse la più nota e potente casa editrice a pagamento italiana, tanto potente da potersi addirittura permettere pubblicità su quotidiani, TV nazionali e siti web), durante un incontro tenutosi all’ultima Fiera del Libro di Torino, a cui hanno partecipato anche Andrea Malabaila (Las Vegas), Costantino Margiotta (Zero91) e Linda Rando (Writer’s Dream). Qui di seguito la registrazione integrale dell’evento.

Perché segnalare questi video? Solo per farsi quattro risate dietro l’olimpionica arrampicata sugli specchi della Grasso? Certo che no. A interessarmi è soprattutto la rievocazione di uno dei concetti che, personalmente, trovo più aberranti quando si parla di cultura: quello di democrazia. La democratizzazione della cultura (anche se in questo caso sarebbe più corretto parlare di democratizzazione della produzione artistica) è infatti la scusa regina di chi opera nel campo dell’editoria a pagamento. Bene, per evitare fraintendimenti, qui di seguito esporrò un mio pensiero molto semplice.

LA DEMOCRATIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE ARTISTICA

È UN CANCRO DA ESTIRPARE!

Mi spiego. Con democrazia s’intende una forma di governo basata sul controllo delle istituzioni da parte dei cittadini. Esistono tuttavia due tipologie principali di democrazia: quella diretta (alquanto rara a dire il vero), dove il popolo esercita personalmente i propri poteri, e una indiretta (detta anche parlamentare), dove invece il popolo esercita i propri poteri tramite dei rappresentanti. Volendo esportare tali concetti nel campo editoriale, le CE a pagamento sarebbero delle democrazie dirette, dove il ruolo del “parlamento” (alias editore) viene svuotato di qualsiasi senso critico e/o di guida.

Ma attenzione: c’è pure un altro dettaglio da tenere bene sott’occhio, ovvero il pagamento della (non indifferente) quota necessaria per poter vedere la propria opera pubblicata. Volendo continuare il paragone “politico” attuato dalla Grasso, tali somme di denaro sono assimilabili a delle mazzette. Per la serie: io ti do l’appalto (trad.: pubblico il tuo libro) se tu in cambio mi fai qualche “favore” (trad.: scucia il denaro, pezzente!).

È questa sarebbe democrazia culturale? Un sistema dove non si viene più pubblicati per meriti personali, bensì solo se si dispone della necessaria liquidità? Ecco perché prima ho definito tale “democrazia culturale” come un cancro da estirpare. No, questa fantomatica democrazia non m’interessa, non la voglio. Al contrario io voglio un sistema dove a farla da padrone è solo il più forte, il più preparato, quello che ha passato anni a rompersi il culo per raggiungere l’agognato risultato. Quello che voglio è il dolore alle nocche che ti viene quando passi intere ore a battere i tasti di un computer, gli occhi rossi per via delle montagne di libri su cui ti sei fatto le ossa, il torcicollo causato da quella scomodissima sedia di legno dove per giorni ti sei seduto sfogliando un volume dopo l’altro; voglio la storta al piede di quando hai saltato di gioia per essere finalmente riuscito a trovare la soluzione per quel fottuttissimo passaggio che ti ha tenuto bloccato per mesi. Questo è quello che voglio, non la democrazia culturale!

E mi fermo qui. Dopotutto non credo ci sia molto altro da aggiungere. Come già detto in fase iniziale, questo articolo, nel suo piccolo, non vuole rivoluzionare il modo con cui l’editoria a pagamento viene (va?) vista, quanto rappresentare una delle tante voci sull’argomento. Anche perché c’è poco da rivoluzionare, quando il concetto espresso è talmente semplice che persino un poppante lo capirebbe.

Alla prossima.

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