E’ tanto che non scrive direttamente di politica. Forse perché in questi mesi c’è stato troppo e insieme troppo poco da scrivere. E perché la’povna è stata presa, la politica, dal farla (più ancora di sempre), a casa sua, nelle strade, a scuola.
E però, di fronte agli ultimissimi eventi, la ‘povna non può fare a meno di prendere la parola, non resiste. Perché su Matteo Renzi aveva già speso, negli anni, parole e riflessioni, tante. E – visto che le sue profezie sul reuccio di Firenze non aveva esitato a offrirle in pubblico, prendendosi responsabilità in anticipo – adesso è il giorno di passare all’incasso. Ché (magra consolazione, peraltro) il suo “io l’avevo detto” si può verificare.
E comincia con lo sgombrare subito il campo da istituzionali equivoci. Al contrario di quanto ha letto (suo malgrado) e si è scritto (a gran sproposito), la ‘povna, che la Costituzione e le leggi del suo Paese le conosce, non è affatto turbata dall’arrivo a Palazzo Chigi dell’attuale segretario del partito Democratico senza passare per le urne. Perché l’Italia è, e resta (nonostante vent’anni di Berlusconi e di mosche cocchiere di sinistra al seguito), una repubblica parlamentare. Cioè uno stato, per chi non lo sapesse, nel quale le maggioranze di governo non escono dirette dalle elezioni, ma si negoziano volta per volta in Parlamento, in nome e per conto di un incarico conferito dal Presidente della Repubblica. Per cambiare questo assetto, piaccia o non piaccia, non basta una legge elettorale (ammesso che sia buona, come ovviamente non è questa), e nemmeno un referendum (sia maledetto Mario Segni, dal quale è iniziato tutto – ma anche i referendari del 1993, PdS in testa, con i quali iniziò la corsa verso il basso, con la sbornia, ininterrotta, da maggioritario).
Questo, per chi grida (o ha gridato) oggi, o due anni e mezzo fa (Monti) o quindici (D’Alema) al golpe: bianco, nero, verde, rosso. O al fascismo di Renzi (quanti si ricordano che l’incarico a Mussolini fu firmato dal re in persona, che, viceversa, disertò lo stato d’assedio richiesto dal ministro Facta, e che la marcia su Roma fu consumata in prima classe, andata e ritorno comodamente in treno?), o all’impeachement del Presidente della Repubblica. Per parlare di incostituzionalità, la Costituzione bisogna conoscerla – che è poi, quello di una proterva ignoranza, che rifiuta caparbiamente di educarsi, uno dei tanti problemi di cittadinanza dell’Italia.
La questione, per la ‘povna, sta in altro. Ed è nell’uso personalistico di principi, indirizzi di azione, del partito stesso, che Renzi ha fatto sin dalla prima ora, sempre. Perché quello cui si sta assistendo in questi giorni, non è che la riproposizione (ennesima) della balena bianca: una stanca riscrittura del pentapartito (adesso fa più chic chiamarle larghe intese, ma – Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Socialdemocratico, Partito Repubblicano, Partito Liberale, per chi fosse di memoria corta – la sostanza è la stessa) che, secondo la migliore tradizione marxiana, si ripete adesso in farsa. Con il Pd – Letta e Renzi sono i nipoti di quella storia, anche questo vale la pena ricordarlo – in piena guerra di correnti, erede (sgarrupato, come vuoto dall’interno) anch’esso della grande tradizione democristiana. Peccato che, nella prima repubblica (che la ‘povna, sia chiaro, non rimpiange, e non ha alcuna intenzione di chiamare Moro, Andreotti, Forlani, Zaccagnini, Fanfani e tutti gli altri gran statisti – chi avesse dei dubbi si guardi Sorrentino, e poi ripassi), i partiti (certi partiti, per lo meno) fossero una cosa seria, e solida, nel quale la struttura dei medesimi trascendeva (e inglobava – il caso Moro, come esempio, basta e avanza) qualunque personalismo. Anche perché c’era una cortina di ferro, che divideva in due il mondo, e l’Italia era paese di confine, per quanto (anche qui) il cittadino medio risenta di consapevolezza. E a rendere armati i già solidi piloni del partito di massa giungevano, a supporto, i due colossi esteri, sovietico e americano.
Ora, crollato il muro, finite le ideologie (?), globalizzato il mondo, dei partiti (quando, e se, in quanto tali, ancora esistono) è rimasto soltanto il guscio esterno. Ed è in questo vuoto di struttura, che pure conserva apparentemente intatte le sue forme, che ha preso luogo la (contenibile) ascesa di Matteo Renzi. Un fenomeno pericoloso non perché eversivo, ma perché spudorato, e privo di una direzione ideologica che non sia personalistica (come interpretare altrimenti la pantomima legata all’urgenza, adesso improvvisamente morta, legata alla legge elettorale). Così un solo individuo (senza un gruppo organizzato capace di trascenderlo), sicuramente intelligente, nel clima generale persino quasi colto, manipola a suo piacere l’opinione pubblica: c’è bisogno di una nuova legge e di una riforma parlamentare (per far sì che davvero i cittadini eleggano direttamente il presidente del Consiglio)? Facciamola! E, quando la strada parlamentare della legge e della riforma è imboccata, si usano le istituzioni attuali con un trasformismo intellettuale cinico quanto perfetto: il segretario del primo partito sconfessa l’operato del premier, è tempo di un rimpasto. Chi ha voglia di fare confronti, si accomodi a consultare Paul Ginsborg: se ne trovano mille, di simili staffette in governi democristiani.
Nel frattempo, non uno, ma ben due partiti rifiutano di andare a consultazione dal Presidente della Repubblica: questo sì, un atto politicamente gravissimo. Ma – a parte il solito Mentana – troppo pochi ne parlano. E Matteo Renzi procede la sua avanzata verso Roma, ben tranquillo; fidando nella mancanza di educazione civica che, ancora una volta, travolge in quell’onda plebiscitaria che fa capo al ’48 (milleottocento, è ovvio), quello che resta dell’Italia.
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