Sicuramente la VR è una piattaforma versatile con infinite potenzialità, sia nel campo dell’intrattenimento sia in quello dell’informazione. Per quanto riguarda il secondo punto, abbiamo già avuto modo di parlarne in passato, più di una volta. Siamo di fronte, quindi, a quello che può essere definito “giornalismo immersivo”, un nuovo modo di diffondere l’informazione sfruttando le caratteristiche della realtà virtuale. Oggi vi parliamo nuovamente dell’esperimento di Nonny de la Peña, una giornalista di Los Angeles, che ha infine portato a termine il progetto di cui già ci eravamo occupati.
Allo scorso IndieCade, Nonny de la Peña e il suo team hanno mostrato un particolare progetto chiamato Use of Force, una riproduzione in VR di una scena di pestaggio di un emigrato messicano, successivamente deceduto a causa delle percosse. L’episodio, realmente accaduto nel 2010, è stato registrato a suo tempo dai cellulari di alcuni testimoni oculari. La riproduzione virtuale della scena è stata elaborata sulla base di questo materiale.
Come potete immaginare, non si tratta di un videogioco nel vero senso del termine. C’è solo una terribile scena a cui ci si trova, praticamente inermi, ad assistere. Lo scopo di un simile progetto infatti sarebbe quello di rendere maggiormente consapevoli i destinatari delle notizie, ponendoli direttamente al centro della storia raccontata che, generalmente, viene filtrata attraverso lo schermo di un televisore o dalle pagine dei giornali.
Per rendere ancora più realistica e di impatto l’esperienza, durante la “demo” l’utente è in grado di registrare ciò a cui assiste virtualmente, in modo da poterlo successivamente condividere.
Nonny de la Peña e ilsuo team hanno intenzione di continuare su questa strada, cercando di rendere accessibili i loro contenuti anche su Oculus Rift. I loro progetti sono certamente da considerare anche in un’ottica di sensibilizzazione del pubblico, ormai troppo avvezzo a scene di violenza che continuamente vengono mostrate non solo nei notiziari, ma anche nei film o altri prodotti di intrattenimento, ma a questo punto sorge un dubbio.
Possibile che questo esperimento, invece di sensibilizzare, possa alla lunga creare un effetto di “assuefazione” ala violenza addirittura maggiore di quello già in parte creato dagli altri media? O, al contrario, un’esperienza vissuta in maniera così viscerale potrebbe spingere le persone a riflettere maggiormente sul mondo in cui si trovano? Ci chiediamo quindi se l’immersive journalism può effettivamente prendere piede, e se ci dovrebbero essere dei limiti in merito a quanto è accettabile mostrare in realtà virtuale. Quando anche i telegiornali tradizionali sono in costante bilico tra dovere di cronaca e “pornografia”, mostrando immagini crude spesso al limite del voyeurismo, ci chiediamo quali reazioni avrebbe il pubblico, per esempio, ad assistere in prima persona alla decapitazione di un ostaggio da parte dell’ISIS.
Non è la prima volta che qui su ORI ci siamo posti questione di carattere etico intorno alla realtà virtuale. Ne parlavamo riguardo al controverso Hatred, e anche riguardo alla provocazione di un comico statunitense che suggeriva di ricreare la Passione di Cristo in realtà virtuale.