Tra le formazioni più numerose presenti al Parlamento italiano ve ne sono due che vengono definite «populiste», l’una appena citata, l’altra maggioritaria al Senato. Dovrebbero essere chiamate diversamente, poiché si tratta in realtà di formazioni autoritarie. Si fondano sul potere carismatico dei rispettivi capi. La loro organizzazione interna è debole, le procedure decisionali sono puramente formali o inesistenti. Il volere del capo o di una cerchia molto ristretta di dirigenti prevale in ogni caso.
Entrambe affermano di guardare al popolo, ma una gli volta le spalle facendosi protettrice degli interessi delle corporazioni più diverse, che sono la fonte del suo successo elettorale: «Tu fai i tuoi comodi e spadroneggi, ma permetti a me di fare i miei comodi e spadroneggiare su chi sta sotto di me, perciò ti voto». L’altra formazione non tarderà con ogni probabilità a seguire lo stesso destino, come conseguenza fisiologica della presa di potere.
Le due formazioni, pur su fronti diversi, hanno conquistato voti con promesse-chiave di fatto irrealizzabili, ma che suonano affascinanti e fanno urlare di piacere le folle. Entrambe le formazioni hanno fatto uso abilmente interessato dei media: l’una utilizzando mezzi che è in grado di controllare totalmente per via proprietaria; l’altra sottraendosi al confronto e facendo passare i suoi messaggi solo attraverso strumenti liberi all’apparenza, ma nei fatti facilmente dominabili come i propri blog e le reti sociali. Le altre forze in gioco che potrebbero opporsi sono divise e incapaci di comunicare con la stessa penetrazione, i loro argomento suonano vecchi.
Sin qui, gli elementi oggettivi dell’autoritarismo. Quanto all’elemento soggettivo, cioè alla volontà dei rispettivi capi di esercitare un potere egemonico, anche questo non manca. Non bisogna per forza pensare al totalitarismo dei fasci littori, delle svastiche o delle falci e martello. Quando una madre italiana deve pagare il latte per neonati il triplo di quanto lo paga una madre svizzera perché in Italia un partito protegge i privilegi della corporazione dei farmacisti, siamo già fuori dalla libertà di disposizione. Quando un cittadino deve sintonizzarsi su un media straniero e sentire notizie in un’altra lingua per sapere cosa accade o accadrà in casa propria, siamo già nella censura di partito. Gli esempi potrebbero continuare. Il totalitarismo non è questione d’interpretazione. E’ un preciso incontro di elementi oggettivi e soggettivi del quale la Storia ci ha già dato molti esempi.
Il popolo elettore ha sempre ragione, si sente dire in questi giorni. Quando i Tedeschi nel 1933 diedero la maggioranza relativa al partito di Adolf Hitler, non ebbero ragione: si votarono alla catastrofe. Quando i Romeni negli anni Settanta sostennero con un generale favore il regime di Ceauşescu che riempiva i supermercati di merci acquistate con soldi a prestito, non ebbero ragione: negli anni Ottanta si ritrovarono senza luce e riscaldamento, a comprare il pane con la tessera del razionamento. Gli stessi Italiani guardarono con favore al fascismo, negli anni in cui li faceva sentire forti e importanti: non ebbero ragione, finì male, con il Paese distrutto e De Gasperi che a Parigi poteva solo più sperare nella personale cortesia dei suoi colleghi internazionali.
Chiamare le cose con il loro nome è un buon inizio per capirle e, se necessario difendersene. Gli Italiani sembrano sottovalutare che il loro benessere quotidiano e la loro libertà non dipendono dal loro ripiegarsi su se stessi ma dal saper essere protagonisti in un contesto globale, innanzitutto europeo, ma anche occidentale e planetario. Dai loro vicini, ultimo ma non ultimo, gli Italiani hanno bisogno di prestiti quotidiani per pagare le pensioni, gli stipendi dei poliziotti, la sanità pubblica. Un buon primo obiettivo potrebbe essere far sì che chi concede questi prestiti non smetta o non cominci a esigesse tassi d’interesse insopportabili. Ce la si può fare, ma bisogna volerlo.