Al di là degli hashtag come #sapevatelo al quale soprattutto i neofiti si affezionano, o ai triti e ritriti “c’è una vita al di fuori di Twitter”, o il “se non twitto non sono morta, semplicemente vivo” eccetera, il tormentone più in voga è di condannare l’Ego altrui e di vedere, nel narcisismo praticato sui social media, una malattia epocale. Se anche fossi perfettamente d’accordo con questo grido di allarme, e lo sono, penso che, lanciato da un social, questo allarme risulti più come uno “spostati da qui perché il tuo ego mi fai ombra”.
Credo si debba prendere atto che ciò che prima era appannaggio di pochi, ossia il mezzo di comunicazione, oggi è alla portata di tutti. Certo, non tutti sono in grado comunicare in modo efficace, non tutti tirano fuori tuit esilaranti, non tutti sono tuitstar... ma molti possono diventarlo. E il fatto che alcuni utenti come blogger e scrittori esordienti, vengano chiamati sempre più spesso a partecipare a trasmissioni televisione, ne è una prova. Questa è una realtà incontrovertibile, che porta sempre più persone a sgomitare per raggiungere la meta, che in questo caso consiste nell’ottenere più follouer e quindi più consenso. Qualunque sia il nostro mestiere siamo qui a rosicchiare fette di pubblico, a guadagnarci RT tuffandoci gagliardi nell’onda anomala del #TT con giudizi tranchant, ironici a ogni costo, simpatici o pieni di doppi sensi. Che il consenso che cerchiamo sia affettivo o letterario alla fine poco importa. Che ci sia qualcuno che frequenta tuitter solo per fare amicizia o perdere un po’ di tempo poi, è un’eccezione.
In un pugno di anni, l’intellettuale, artista, pittore, attore o musicista, da “eccellenza” di grande esperienza e Guru autoritario, si è ritrovato circondato da sconosciuti spesso nascosti dall’anonimato che, scartabellando rapidamente le vaghe informazioni del web, sono in grado di rispondere prontamente alle provocazioni e di millantare (non sempre) una cultura impeccabile. Ciò crea una sensazione di disagio che mette i primi, quelli che hanno studiato e hanno fatto gavetta, nella condizione di denunciare il narcisismo diffuso e a loro avviso immotivato: non c’è nome, non c’è curriculum, non c’è ragione e così via, e gli altri, quelli che accumulano follouer sulla base del nulla, nella posizione di doversi difendere: ma chi cazzo TI credi di essere? Il rispetto per l’effettiva statura dell’altro o la sua esperienza, la considerazione dell’altro da sé più in generale e quindi la capacità di stare zitti ad ascoltare, qualunque sia l’esperienza del nostro interlocutore, viene completamente annullata dal fatto che chiunque, vigliaccamente, può dire la propria opinione e trovare approvazione in un vasto pubblico di propri pari. Il narcisismo su #Twitter può diventare veramente patologico e trasformarsi in disagio prima in odio poi, e se “odio” vi pare una parola troppo forte sappiate che questi tizi sono già stati battezzati in rete come “Hater”. #Twitter è perciò l’esempio lampante di come dal nulla si può creare il nulla sentendosi qualcuno. Qualsiasi argomento può rischiare di accendere la miccia dell’odio collettivo che, malvestito da “ironia”, da l’opportunità a migliaia d’imbecilli di ottenere consenso da altrettanti imbecilli. Perché fateci caso, sono sempre i centoquaranta caratteri più cattivi, più disumani e condannabili i più Rituittati. È la lite, è il dissenso, è la capacità di dire: tu non capisci un cazzo, al giornalista di turno che ci fa sentire protagonisti di un’esistenza il più delle volte, purtroppo, fallimentare.
Gillo Dorfles in un articolo illuminante dal titolo “Ipertrofia dell’io: egocentrismo o intolleranza?” scrive: “Tolleranza non è che ammettere che il prossimo possa essere in buona fede; che il proprio comportamento possa risultare altrettanto sgradevole di quello altrui; che gli errori degli altri non siano forse maggiori dei nostri, ecc. Ma significa anche: non inalberarsi se il prossimo non condivide i nostri gusti, le nostre inclinazioni socio-politiche-religiose, ecc”.
Ancora una volta la colpa è di chi ha gettato questo #Paese nell’anarchia, che ha deregolamentato l’accesso al mondo del lavoro, il poco che c’è, facendoci credere che basta il colpo di fortuna e l’accumulo di follouers a fare di noi un “personaggio”. La responsabilità è dei critici, dei giornalisti e di tanti intellettuali che si sono accontentati di mantenere intatto il proprio nome e il proprio posto di lavoro anziché analizzare seriamente e denunciare, ciò che a partire dagli anni ottanta ci ha condotto all’intolleranza verso chiunque la pensi diversamente da noi. E se recuperassimo anche un po’ di buona dialettica anziché chiudere qualsiasi conversazione con un volgare “sticazzi”, potremmo forse imparare a rigeneraci e a distinguere chi veramente “sa” da chi semplicemente “mostra”.