Le nuove regole del gioco emergono dalla nuova concezione di felicità personale.
Dalla dimensione squisitamente economica che ha prevalso negli ultimi decenni, ci stiamo infatti spostando – in termini di percezione collettiva – in una dimensione in cui la qualità umana delle relazioni e delle esperienze acquisisce una forza uguale se non maggiore rispetto alla qualità materiale dei consumi. La sfida dell’impresa orientata a questa attitudine progettuale diffusa diventa allora quella di garantire ai propri clienti una offerta di prodotti e servizi in grado di svolgere un ruolo di mediazione tra le felicità delle persone, comprendendo le nuove qualità di vita, ripensando alle condizioni di partenza per essere felici, e alle pratiche concrete attraverso cui renderle possibili.
Ecco dove l’intelligenza quotidiana si trasforma in design thinking, nel momento in cui i consum-autori pensano concretamente alle proprie qualità di vita e di esperienza, valutando il valore di un oggetto, di un prodotto, di una forma o di un materiale. In questo ripensamento assumono nuova centralità la qualità del tempo, dello spazio e del corpo, mentre si ridimensionano i sogni economici, tecnologici, consumistici. La prospettiva diventa quella di una contemporaneità tutt’altro che banale e standardizzata, che propone la rivoluzionaria capacità per ognuno di ritagliare i confini della propria normalità. L’intelligenza richiesta in questo esercizio progettuale è sfaccettata e multiforme e non privilegia né solo l’aspetto emotivo, né solo quello razionale: la sfida decisiva per il futuro diventa immaginare percorsi progettuali, produttivi, commerciali, che sappiano bilanciare questi diversi aspetti.
Molti imprenditori e progettisti intervistati in questo numero di Interni, dedicato appunto al design thinking, hanno adottato nella loro attività questa regola del gioco: un incontro virtuoso tra ragione e passione, che segna tra l’altro in profondità un preciso ‘Italian way’, un modo italiano di fare le cose che discende direttamente dalla bottega rinascimentale. In questo gioco il dare equivale al ricevere: espressione più o meno articolata di un legame affettivo, simbolico o percettivo di cui dimostriamo un bisogno sempre più convinto. Si spezza definitivamente la legittimità dello scambio in cui il valore coincide con il prezzo. Se spostiamo il punto di vista e trasferiamo queste riflessioni nell’ambito del marketing, ci accorgiamo che la logica del target esclude questo scambio, rende impossibile la relazione reciproca, perché quando si raggiunge un target lo si uccide, non si ha alcuna voglia di ascoltarlo o di servirlo, ma piuttosto si tenta di isolarlo privandolo del proprio capitale sociale, al di fuori del suo contesto di vita, e soprattutto al di là del suo carattere che non può certo essere ricondotto ad un profilo standard. Il marketing divide laddove il design unisce attraverso la sua capacità di passione condivisa: basti pensare ai prodotti della Apple, che non conoscono crisi o segmentazioni.
Ciò che interessa normalmente è lavorare in un’economia di scala, attraverso l’annullamento del carattere personale, sostituito da individui singoli e isolati, riconducibili gli uni agli altri, target pronti per una strategia one-to-one, nel senso di una guerra chirurgica con ogni singolo consumatore, che in realtà è impossibile adottare per evidenti asimmetrie e dispendi di energia.
In questa ottica il consumatore è diventato un nemico, ed è questa la vera ragione della crisi: sarà anche un re, al centro delle preoccupazioni aziendali, ma è un re che comanda in un paese nemico. Il design thinking ci aiuta a uscire da questo impasse. Quante aziende guardano i propri consumatori negli occhi, e quanti sono i manager che guardano negli occhi della propria azienda? Per decidere cosa è più giusto fare, partendo dalla propria esperienza e dalla propria competenza? Per accettare con coraggio la responsabilità di decisioni fuori dagli schemi?
Abbiamo compiuto in questi anni una sorta di estirpazione dello sguardo e del pensiero, abbiamo evitato di adottare diversi punti di vista, tanto meno quello delle persone, vere, concrete, vitali.
E molti consumatori si sono ormai accorti che le aziende e i loro prodotti – spesso loro malgrado – non sono più in grado di proporre uno sguardo sul mondo: sono diventati dei nemici, che cercano disperatamente di imporre, di raggirare, di persuadere, di marchiare a fuoco la realtà e il territorio: e questo non viene più accettato. Sono sempre più frequenti i distinguo tra azienda e azienda, tra prodotto e prodotto, valutati sulla base di codici valoriali, di comportamenti etici, nei processi produttivi e nella comunicazione. Ecco emergere il consum-autore e l’elaborazione della sua attitudine progettuale.
Alcune epoche dispongono di un sistema codificato di regole estetiche che vengono felicemente condivise, dopo un certo tempo di incubazione mentale. Il Rinascimento italiano costituisce forse l’esempio più emblematico a questo proposito. Un periodo felice vive di codici culturali, di senso collettivo, di abitudine artistica, di grammatica condivisa, e di sintassi comune.
Nella fase post-moderna da cui stiamo emergendo non esisteva alcuna grammatica, né sintassi, alcun dizionario e nessuna ortografia: la lingua esisteva per individui isolati, decisi a non comunicare. Oggi al contrario gli individui (e con loro gli artisti e i progettisti) ritrovano il gusto di avviare uno scambio, di proporre una intersoggettività, di mirare a una comunicazione. Anche attraverso il design thinking.
È come se nell’istante in cui tutto sembra ormai inesorabilmente reso inautentico dai media, tutto ridiventasse vero, come quando la realtà si svela; come se emergesse una esigenza di toccare con mano, un’esigenza che riporta il reale al punto di partenza.
Ciò comunque coincide con una lenta, faticosa, difficile, ricostruzione di una dimensione etica, nella quale la capacità di istituire relazioni, di responsabilizzare e di condividere prevalga sulle semplici tecnologie del potere ‘esercitato su’ territori, comunità, individui.
Ciò significa lavorare su una nuova etica, meno orientata a un ideale ascetico o ideologico, e più incline alla vita concreta e a un ideale edonista, non egotico né autistico, ma intelligente e relazionale. Si tratta di affidare all’estetica il compito di formulare un’etica alternativa per costruire una morale non più di resistenza (come troppo spesso avviene) ma di esistenza, che non accetti la sottomissione della produzione estetica alle leggi di mercato, e ancor meno alle logiche mediatiche.
Francesco Morace
estratto dal numero di Interni 594: design thinking