Desublimazione dannunziana

Creato il 24 maggio 2014 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua
Alla definizione di 'poesia dannunziana' si collega inevitabilmente la menzione del pezzo più famoso di Alcyone, La pioggia nel pineto, ovvero i centoventotto versi intrisi di sonorità, sensualità, panismo e simbolismi. Del poeta-vate Gabriele D'Annunzio non si può che sottolineare quello stile ampio e compiaciuto che lo rende o amatissimo o odiatissimo ai lettori e agli studiosi di poesia, ma va detto che il suo slancio espressivo, l'avvolgimento delle parole una sull'altra, lo slancio ad una sublimità che talvolta sfocia nell'oscurità sono sempre stati oggetto di grande ammirazione, ma anche bersagli prediletti della parodia di autori contemporanei e successivi.

Gabriele D'Annunzio fotografato da Mario Nunes Vais


Ricapitoliamo brevemente la situazione: La pioggia nel pineto (quella originale) è un componimento in versi liberi divisi in quattro strofe, in cui viene descritto il miracolo compiuto dalla pioggia che cade sui boschi fiesolani dove il poeta e la sua donna, quella Ermione dietro cui si cela Eleonora Duse, stanno passeggiando. L'acqua cade e produce rumori più o meno intensi a seconda che cada sulle «fronde / più rade, men rade» (vv. 38-39) e irrora indistintamente le piante e i due protagonisti, sicché il volto e il corpo della donna iniziano a confondersi con la natura, ad assumerne i tratti: il cuore è «come pesca», gli occhi «polle tra l'erba», i denti sono «mandorle acerbe» e la trasformazione panica si compie, assorbendo l'essere umano.
A canzonare l'elegante pezzo del vate pescarese inizia il poeta futurista Luciano Folgore (pseudonimo di Omero Vecchi), che nel 1922 pubblica, all'interno della raccolta Poeti controluce, La pioggia sul cappello, una versione fortemente prosastica dietro cui, però, si riconosce, grazie ad un sapiente riecheggiamento di formule e sequenze, il modello dannunziano: 
Silenzio. Il cielo
è diventato una nube,
vedo oscurarsi le tube
non vedo l’ombrello,
ma odo sul mio cappello
di paglia,
da venti dracne e cinquanta
la gocciola che si schianta,
come una bolla,
tra il nastro e la colla.
Per Giove, piove
sicuramente,
piove sulle matrone
vestite di niente,
piove sui bambini
recalcitranti,
piove sui mezzi guanti
turchini,
piove sulle giunoni,
sulle veneri a passeggio,
piove sopra i catoni,
e, quello ch’è peggio,
piove sul tuo cappello
leggiadro,
che ieri ho pagato,
che oggi si guasta;
piove, governo ladro! ...
L’odi tu? Non è di passaggio
come l’acqua
di maggio,
che sciacqua la terra e la monda.
Sgronda terribilmente;
si sente il blasfemo
di un polifèmo ambulante,
si veggono ninfe e atalante
fuggire in un angiporto;
Plutone più vivo che morto
si pone una nivea pezzuola
sul feltro che cola;
Diana s’accorcia la tunica
fin quasi all’altezza del femore,
e Dedalo immemore a Marte
con toga a due petti e speroni
s’impalano ai muri con arte
per evitare i doccioni.
Cibele fa segno all’auriga
che incurva il soffietto alla biga,
e monta sul cocchio
mentre la furia di Eolo
le palpa il malleolo
le morde il polpaccio,
si sfibia
d’intorno allo stinco e alla tibia.
Bagnati dal coccige al collo,
dal naso al tallone d’Achille,
fradici fino al midollo,
cugini alle anguille,
nubili d’ombrello,
col solo cappello,
sentiamo che l’essere anfibi
sarebbe un superbo destino,
te biscia,
io girino,
e liscia la piova del giorno
ci colerebbe d’attorno,
non come Issïone
che fece la ruota a Giunone,
ma pari al Tritone
cui Teti concesse
- regalo di nume -
di potersi fare
un ampio palamidone
di schiume di mare.
E piove sempre,
sul càmice mio,
sul peplo tuo
colore oramai dell’oblio,
piove sul croceo e l’eburno
del tuo moccichino di seta,
piove sul cromo del mio coturno
che s’impatacca di creta,
piove sopra il cinabro
che t’impomidaura il labro,
piove sui tremoli tocchi
che t’anneriscono gli occhi,
e andiamo d’androne
in androne,
con facce da mascherone,

squadrandoci obliquamente
se qualche pozza lucente
ci specchia e ci invecchia
per farci morir di furore,
Narcisi
dai visi colore
di colla di paglia,
di succo di nastro,
d’impiastro di minio,
di guazzo assassino
di cipria e di carboncino.
E piove a dirotto
da tutte le nubi,
piove dai tubi
sfasciati
dell’acquedotto
del cielo,
piove sui cani spelati,
piove sul melo e sul tiglio,
piove sul padre e sul figlio,
piove sui putti lattanti
sui sandali rutilanti,

su Pègaso bolso,
su orïolo da polso,
piove sul tuo vestitino,
che m’è costato un tesauro,
piove sulla salvia e sul lauro
sull’erbetta e sul rosmarino,

piove sulle vergini schive,
piove su Pàsife e Bacco,
piove persin sulle pive
nel sacco.
E piove sopra tutto
sul tuo cappello distrutto
mutato in setaccio,
che ieri ho pagato
che adesso è uno straccio,
o Ermione

che scordi a casa l’ombrello
nei giorni di mezza stagione.
La dimensione è fortemente prosastica, la pioggia non è un bagno di natura, ma una sgradevole sensazione dovuta alla sbadataggine di Ermione, non più lodata come una ninfa silestre, bensì rimproverata per non aver portato l'ombrello: è a causa di questa donna che il cappello che ella porta con tanta vezzosità nell'andare «di androne / in androne» (anziché «di fratta in fratta» come al v. 110 di D'Annunzio) e per cui l'io-poetico ha speso con reticenza i suoi soldi si sta riducendo ad uno straccio, è per questa pioggia fastidiosa che il trucco sul suo volto si sta impiastricciando e cola impietosamente (altro che le ciglia nere della musa dannunziana, altroché «volti silvani»!). In un tale sfacelo, l'unica metamorfosi che l'autore si augura consiste nell'assumere le forme di una biscia e di un girino e persino le allusioni alle figure della classicità che in D'Annunzio avevano per soggetto Afrodite (a lei sono sacri i mirti dei vv.14 e 47) e Dafne (alla cui trasformazione si allude ai vv. 100-101) sono desublimate in altisonanti descrizioni di divinità goffamente sorprese dall'acquazzone.Quasi cinquant'anni dopo, Satura, l'ultimo libro di Montale (1871), presenta una rilettura de La pioggia nel pineto, con un testo intitolato Piove che è molto più breve sia dell'originale che della precedente parodia.
Piove. È uno stillicidio
senza tonfi
di motorette o strilli
di bambini.
Piove
da un cielo che non ha
nuvole.
Piove
sul nulla che si fa
in queste ore di sciopero
generale.
Piove sulla tua tomba
a San Felice
a Ema
e la terra non trema
perché non c'è terremoto
né guerra.
Piove
non sulla favola bella
di lontane stagioni,
ma sulla cartella
esattoriale,
piove sugli ossi di seppia
e sulla greppia nazionale.
Piove sulla Gazzetta Ufficiale
qui dal balcone aperto,
piove sul Parlamento,
piove su via Solferino,
piove senza che il vento
smuova le carte.
Piove
in assenza di Ermione
se Dio vuole,
piove perché l'assenza
è universale
e se la terra non trema
è perché Arcetri a lei
non l'ha ordinato.
Piove sui nuovi epistèmi
del primate a due piedi,
sull'uomo indiato, sul cielo
ominizzato, sul ceffo
dei teologi in tuta
o paludati,
piove sul progresso
della contestazione,
piove sui works in regress,
piove
sui cipressi malati
del cimitero
, sgòcciola
sulla pubblica opinione.
Piove, ma dove appari
non è acqua né atmosfera,
piove perché se non sei
è solo la mancanza e può affogare.

La poesia presenta l'alternnza di un registro comico-grottesco e di un lamento doloroso. Il primo si riscontra nelle strofe 1-2 e 4-7, nei momenti in cui l'autore si concentra sul cadere della pioggia sulla vita quotidiana, sui luoghi che vede e frequenta ogni giorno (la città operaia in sciopero, il Parlamento, la sede del Corriere della Sera in via Solferino), sulle banalità e le seccature che si susseguono giorno dopo giorno (i rumori delle motorette, i proclami e le cartelle esattoriali); in tale contesto, vengono pesantemente degradati il vitalismo e il panismo del modello, con la formula «sull'uomo indiato, sul cielo / ominizzato», chiara irrisione dello scambio fra uomo e natura e del mito del Superuomo dannunziano. Il secondo registro, invece, emerge nelle strofe 2 e 8, laddove troneggia il ricordo di Mosca, l'amata Drusilla Tanzi, morta nel 1963; ne vengono evocate la sepoltura presso Firenze e l'assenza che permea di sé tutta la raccolta: qui non c'è una ninfa che esce dalla scorza degli alberi, non c'è un'apparizione afferrabile, non c'è quel possesso struggente che D'Annunzio avanza su Ermione, ora, come in Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, è il «vuoto ad ogni passo» e se è solo questa voragine a restare, tanto vale che la pioggia la riempia, che continui a piovere e che tutta quella realtà che non è quella che si vede (il riferimento è sempre sempre a Ho sceso, v. 7) ne finisca sommersa.
C.M.

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