Detachment: Quei Luoghi Oscuri Dove Comincia il Nostro Distacco

Creato il 17 ottobre 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Negli Stati Uniti si è da tempo stabilita una vera e propria tradizione di pellicole incentrate sul sistema educativo, sulle sue falle, sulle sue potenzialità e, specialmente, su quel microcosmo di esseri che, con vari ruoli, lo popolano. Se il “Dead Poets Society” (noto in Italia come “L’attimo fuggente”) di Peter Weir ci sembra storia vecchia e lontana, si guardi al decorso (in una certa maniera clinico) di questa pratica, che dall’analisi sulla banalità e conformità del sistema scolastico si è spostata sulla sua (a volte troppo enfatizzata) pericolosità, come dimostrano i successivi “Pensieri pericolosi” o “The Principal – Una classe violenta”, per citarne alcuni, fino poi a concentrarsi in epoca recente sui vari problemi che possono interessare gli studenti ma, in quanto esseri umani, anche gli insegnanti. Esempio magistrale dell’ultima corrente analitica è forse “Half Nelson”, straordinario e poco noto film del 2006 che valse a Ryan Gosling la sua prima (e, per il momento, ultima) nomination agli Oscar. E poi c’è “Detachment”. Nella pratica dei fatti, “Half Nelson” e “Detachment” presentano molti punti in comune: primo fra tutti la locandina abbastanza simile; in secondo luogo la prestazione parecchio sopra la media dei due attori protagonisti che vivono tormenti differenti ma non sono poi così distanti. Ciò che davvero rende “Detachment” qualcosa di diverso è la mano che traccia le linee e le ricalca: mentre il Ryan Fleck di “Half Nelson” era un perfetto sconosciuto, il regista di “Detachment” è niente poco di meno che Tony Kaye, già autore del discusso “American History X”. La personificazione di una scuola, vera protagonista della pellicola, capace di cogliere la luminosità ma non di saperla mantenere né utilizzare in maniera attiva, illuminata (per mano dello stesso Tony Kaye, che è anche direttore della fotografia) da un’azzeccata fotografia tendente al bianco ed ai toni chiari, diventa angosciosa rivelazione di declino. Ma questa enorme protagonista, ebbene, non basta.

Avere a che fare con una preside sull’orlo del baratro, un professore che si crede invisibile, un altro che si imbottisce di pillole ed una consulente psicologica con un gran bisogno di entrare lei stessa in analisi, infatti, è solo una parte di una totalità che vuole uscire da quell’ambiente e scalcia per andare anche in altri luoghi, vedere altre cose, sperimentare altri modi. Che si vada per terrificanti cliniche per anziani, o che si veda un uomo camminare da solo in piena notte senza meta in una città priva di anima, e poi lo si noti parlare ed agire immortalato da ansiose inquadrature dal basso; che si passi da squallide scene di sesso in un autobus cittadino o immotivate violenze su animali, il chiodo che viene battuto in sintesi, però, sembra sempre lo stesso. Alcune circostanze si rivelano perlomeno funzionali alla trama, o, più che altro, all’introduzione di altre sottotrame, come quella, forse più riuscita di altre, della bambina-prostituta Erica (l’androgina Sami Gayle del serial “Blue Bloods”), ennesima sfaccettatura di una storia che, per chi non se ne fosse accorto, è decisamente corale. Ci vuole pianificazione, ci vuole bravura e soprattutto c’è necessità di talento per fare stagliare da questo scurissimo coro il faccione derelitto di Adrien Brody, in questo film letteralmente al meglio di sé, forse fin troppo, così tanto da sbatterci in faccia l’assenza e la tetra inferiorità della rossa Christina Hendricks (la formosa segretaria del serial “Mad Men”), abbastanza poco a suo agio per tutta la durata della storia, e lei stessa, insieme a noi, dubbiosa sul perché si trovi lì. Alcune voci, però, riescono a farsi sentire quasi allo stesso livello di quella di Brody, il quale non riesce ad eclissare l’interpretazione della brava Marcia Gay Harden (“Mystic River”, “Crocevia della morte”), nello straziante ruolo della preside della scuola.

Tra gli altri degni di nota, troviamo poi volti abbastanza noti per chi pratica la tv: il William Petersen di “CSI”, il sottovalutato e versatile Bryan Cranston di “Breaking Bad”, in un ruolo che può quasi essere definito un cameo, e la più appariscente che coinvolgente Lucy Liu di “Southland” e diversi altri serial, poco al di sotto della Hendricks nella sua mancanza di qualunque emozione riconoscibile. Ma a farla da padrone fra i personaggi secondari è un brillante ed estremo James Caan (“Misery non deve morire”, “Il padrino”) apprezzabile e perfettamente nella parte, oltre che candidato ad unico stacchetto umoristico, seppur amaro, presente in mezzo a quella che è una vera e propria sfilata di tragedie. Riempire un’ora e quaranta minuti di pellicola con un “carnevale di dolore” (per usare un’espressione adoperata ad un certo punto nel film) culminante nel ricordo – mantenuto per tutto il tempo vivo e infine risolto (non senza necessarie inquietanti ipotesi da parte dello spettatore) – del dramma personale di Henry, può certamente portare dell’acqua al mulino fino ad un preciso momento o magari continuare a farlo fino alla fine, nel caso di una specifica fetta di pubblico, ma ad un’altra può anche apparire leggermente esagerato e controproducente. Non ci viene, infatti, fornito nulla che possa distoglierci dal fascino del dramma e della sciagura; perfino la colonna sonora si mantiene sempre piacevole, ma, coerentemente, molto poco invasiva ed alle volte quasi impercettibile. O forse qualcosa c’è, ma ci costringerebbe ad aprire la porta verso un piano ancora più profondo e, per certi versi, un po’ abusato e banale. A differenza di “American History X”, in “Detachment” sorge, infatti, il dubbio che, oltre a mostrarci eventi e situazioni esemplificative del problema che le ha generate, ogni tanto sembra anche che qualcuno voglia suggerircelo, il problema.

Già di per sé le interviste iniziali, incentrate tutte quante su degli insegnanti che sembrano essere diventati tali solo per mancanza di alternativa, o perché non avevano nulla di meglio da fare, sono sicuramente abbastanza ambigue; integrarle col successivo excursus psicologico dei rappresentanti l’istituzione scolastica, con delle forti quanto ridondanti animazioni che passano su una lavagna a momenti alterni, col riferimento parecchio incisivo al “1984” di George Orwell ed al suo bispensiero, con la presenza-assenza di genitori che praticamente non si vedono mai, ma si sentono, nelle loro parole assurde ed idiote abbinate alla mancanza di qualunque tipo di rispetto non soltanto per l’istruzione, ma per i loro stessi figli, sa di processo ben programmato. Il fine ultimo stringere il cappio su qualcuno in particolare. E poi c’è la problematica più grande: si fa cenno a certi concetti, ubiquità ed assorbimento, coniando addirittura un termine linguistico nuovo che indichi «l’assorbire ovunque ed in ogni momento»; sono parole di Tony Kaye, che vuole spiegarci cosa – tralasciando i risultati opinabili – ha provato a fare? «Tutti noi abbiamo troppe storie di cui occuparci e questo ci distoglie dall’obiettivo»: le parole di Henry pesano, colpiscono, cercano anche di farci riflettere; sempre. Queste, così come le molte altre pronunciate in quei momenti da docu-fiction che ritroviamo nella pellicola, esemplificano o argomentano o ancora suggeriscono una determinata visione delle cose. A dir la verità, non sempre è facile dire a chi o cosa chiaramente si rivolgano o riferiscano, perché quelle appena citate, non si sa se per coincidenza, coerenza o voluto auto-criticismo, descrivono esattamente il nodo che sta nella matassa funzionale di un film come “Detachment”.

Qual era l’obiettivo? Tornando con piacere ad Orwell e al suo bispensiero, a quella volontà e capacità di prendere un’idea e sostenere essa stessa ed il suo opposto, senza fare domande, la pellicola pare così leggiadra e decisa, ma anche irrigidita su sé stessa e conflittuale. Henry è, come viene raffigurato da una sua allieva – anch’ella tributaria di un incantevole disagio personale – un uomo senza volto in una stanza vuota; è così essenziale da essere svuotato, come l’ottimo comparto scenografico del suo appartamento ed il suo abbigliamento ci confermano; ma c’è un lampo in lui: quel distacco, tanto proclamato, è quella stessa maschera senza lineamenti; una credenza popolare, operata ed estesa per tutto il tempo anche su di noi. Rimaniamo, difatti, persi a vedere e sentire Henry, preda dell’intenso montaggio finale; lo immaginiamo e lo sappiamo distaccato, lì, alle porte della casa degli Usher di Edgar Allan Poe; ci rendiamo conto di ciò che ci è accaduto: siamo stati impietriti, scombussolati, al punto da diventare avvezzi a quella sequela di drammi che ci ha intrattenuto; siamo sicuri di essere saturi ed incapaci di assorbire e sentire qualcos’altro, esattamente come Henry che, nel frattempo, vediamo affogare in mezzo alle sue parole, come se ne fosse parte indissolubile e ironicamente legata. Arrivando poco a poco a credere di non essere insensibili di fronte a questo spettacolo, nonostante i fili che “l’olocausto del marketing” sta attorcigliando su di noi, sappiamo di essere lì con lui ma contestualmente sappiamo di non esserci più: è forse questo il bispensiero?


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