Che libertà ed emancipazione ci possono essere, paradigmaticamente, in una “nuova vita” dell’immigrato terzomondista condotta nelle periferie delinquenziali del nostro benessere, nell’ambito di una “famiglia” che, seppur “in regola” e riconosciuta agli atti e agli occhi dello Stato ospite, non ha nessuna storia matrimoniale e parentale pregressa, non essendosi precedentemente mai stretto alcun legame tra i due presunti coniugi?
L’allucinazione compensativa della sequenza finale dell’ultimo film di Audiard, Dheepan (un futuro felice, e oramai impossibile, di integrazione in una ridente comunità britannica, evocante il simbolo diffuso dell’Inghilterra quale terra multiculturale e dei diritti, ma anche, ironicamente, quello di una patria fonte di tanto nefasto colonialismo), conferma tutta l’ambiguità della tensione concettuale del lungometraggio tra i due poli drammatici, simbolici ed esistenziali, dell’illusione di una vita diversa nell’Occidente civile vagheggiata dall’immigrato in fuga da guerre e indigenze totalizzanti, da un lato, e dell’oggettiva marginalizzazione subita dal Terzo mondo per conto di una Storia parimenti occidentale, dall’altro.
È un’opera, questa, che non prende alcuna dichiarata piega politico-ideologica eversiva, restituendo invece, con nettezza e disillusione, certo diffuso spirito dei nostri tempi.
La ribellione e l’ecatombe finali, rivolte dal protagonista contro l’habitat occidentale ipocrita, pseudo-progressista, soggetto al potere feticistico del denaro e dei traffici e sostanzialmente malavitoso che gli ha negato un’accoglienza e un’integrazione sociali degne, vengono certo associate metaforicamente dal testo filmico alla rivolta nei confronti dello Stato terzomondista-tiranno dell’incipit, ma rimangono prive di ogni dimensione corale e politica: costretto dalla precarietà imprevista delle circostanze (il percolo di vita della sua amata convivente) nell’ambito di un ordine socio-ambientale di ghettizzazione e di morte, l’ex guerrigliero “partigiano” dello Sri Lanka si ribellerà in completa solitudine ai criminali del sobborgo parigino cui è stato confinato dalle istituzioni “assistenziali” francesi, alla stregua di una miccia anarchica nel nulla.
L’ideologia di affrancamento dalla tirannide e dalla schiavitù per cui un tempo, in primis nella patria e nel continente della rivoluzione francese, le persone facevano corpo collettivo coeso e combattevano congiuntamente, diventa qui, nel nostro mondo postmoderno, un fantasma solitario e scollegato dalla realtà, che all’occorrenza può attivarsi in una spirale estrovertita di “risentimento” e di “follia”.
Tema centrale del film diventa così la trasformazione del concetto e del valore di libertà da diritto universale e sociale da rivendicare all’autorità, e in cui credere e investire collegialmente, a simulacro evanescente, disinnescante le necessarie forze ideologiche, materiali e politiche di qualsiasi lotta pragmatica mossa in Suo nome.
Francesco Di Benedetto