Se siamo sopravvissuti fino a qui è perché abbiamo potuto raccontare di compagni di stanza in ospedale che non sarebbero andati oltre giovedì, persone anche meno anziane di noi ma molto messe peggio per cui assistere alla loro fine non sarebbe stato comunque un fattore corroborante per la nostra convalescenza. O amici di amici molto sfortunati coinvolti in incidenti che hanno dell’incredibile altrimenti non sarebbero incidenti, uno dice. Che crudeltà. C’è sempre un terremoto nell’altro emisfero, un tornado in una grande pianura continentale, un vulcano che esplode solo perché ha un nome impronunciabile. Ma questo non vuol dire che non sia anche merito nostro, che quando camminavano in strade pericolose non ci siamo lasciati avvicinare da nessuno di quelli che a ridosso di anfratti suburbani lanciavano il loro richiamo fatto di consonanti aspirate e sibili indecifrabili apposta, così ti facevi sotto per chiedere spiegazioni e a quel punto non c’era scampo ma solo ottime possibilità di passare dalle clic clac alle monodose senza ritorno. Un sentiero tutto luminoso che ci ha portato a pensare che pettinare e vestire i nostri figli come noi sia la cosa più ovvia, come se fossimo un esempio solo perché, ripeto, siamo qui a scriverlo. E ai limiti opposti della nostra vita ci sono le generazioni che ci tirano da una parte e dall’altra. Chi è troppo vecchio ci aspetta vestito di tutto punto a fianco del proprio armadietto in reparto perché è andata bene ancora una volta, chi è troppo giovane ci saluta con l’ennesima domanda prima di essere inghiottito in un’altro giorno di una scuola che è talmente cambiata che facciamo fatica a coglierne l’utilità. Così restiamo immobili in questo baricentro di equilibri che speriamo non cambino mai o, almeno, che ci si lasci il tempo di rimetterci in sesto.
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