Ferruccio Parazzoli dall’alto della sua lunga carriera in Mondadori, con tono colloquiale ci guida nel mondo della scrittura e dell’editoria, riflette sul significato di essere scrittori e lo fa sempre in modo colto e originale.
Riporto un brano estremamente interessante, da: Inventare il mondo. Teoria e pratica del racconto, Garzanti [da pag 24 a pag 26], dove cin indica una via per superare il cosidetto blocco dello scrittore.
Di fronte al foglio bianco: pensare o scrivere?
Le scelte e gli errori: di chi e di che cosa scrivere e perché. Premessa: quando si scrive bisogna puntare il più in alto possibile, in gara con ognuno di quegli autori che sono elencati nella Garzantina di letteratura dalla A alla Z. In gara, non importa dove si arriva.
Fare lo scrittore vuol dire impegnarsi seriamente sia da un punto di vista artistico sia professionale. Le due cose non sono separate. Può avvenire, ma solo per disgrazia. La scrittura è il mezzo che uso, i lettori mi crederanno se riuscirò a dar loro l’illusione. Attraverso che cosa? Attraverso la scrittura. Non ho altro mezzo.
Entrando nel tema della pagina bianca c’è una premessa. Non mi metto a scrivere se non ho un bagaglio, dentro di me, che ho incamerato, un insieme di sensazioni, ricordi, osservazioni, idee. Non posso mettermi a scrivere se prima non ascolto. Che cosa? Il mondo non è silenzioso. Il brusio, non i rumori, del mondo. La mia posizione e di colui che spia, un eterno spionaggio. Solo con l’antenna alzata e sento questo brusio continuo. Non è detto che sia sempre un brusio umano, il brusio lo mandano anche le cose. Per lo scrittore il silenzio del mondo non esiste, c’è sempre qualcosa da ascoltare. Tutto parla, tutto si muove, tutto produce un suono, a volte anche un rumore. E la vita che, come una grande rappresentazione, ci avvolge e di cui facciamo parte. Il mondo è rappresentazione, diceva Schopenhauer. Se vogliamo scrivere facciamo un passo indietro e la fotografiamo all’interno di noi: un susseguirsi di flash, un insieme di flash, lampi.
Come si fa. In pratica è quello che chiamo lo smascheramento della vita. La vita si nasconde, i fatti si nascondono, tutto si nasconde. Perché, dietro che cosa? Dietro alla normalità, dietro la banalità, dietro la quotidianità, ma è proprio dietro questi nascondigli che noi dobbiamo andare a scovare quello che sarà il nostro nucleo narrativo.
Come ci arrivo? Con la parola. Il mio unico mezzo è la parola. Diceva Derrida, inventore del decostruzionismo, l’accadere dell’impossibile: all’inizio c’è la parola. Non voglio arrivare al Vangelo di Giovanni che dice: “all’inizio era il Verbo”. Ma, dal momento che ho detto che dobbiamo puntare più in alto possibile, ci arrivo: all’inizio era il Verbo. Cosa vuol dire. Una cosa che tormentava Mauriac: che lo scrittore è Dio,o è come Dio, o fa le veci di Dio, o ha l’onniscienza di Dio… fa parte di un certo potere perché ha la parola. […]
A questo punto mi posso sedere davanti al mio computer. Che faccio? Mi metto lì a pensare alla prima frase? A come elaborerò la prima frase? No. Mi metto pensare che cosa avverrà nel primo capitolo? No. Mi metto a pensare se mi conviene iniziare con un personaggio maschile o femminile? Niente di tutto questo e, in ogni modo, tutto questo; ma niente di tutto questo all’inizio. Se mi metto davanti al computer acceso, io scrivo: non ci sto a pensare nemmeno cinque minuti. Scrivo: posso sempre buttare; però, scrivo.
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