Di negozi aperti la domenica, lavori pro tempore e 300 euro al mese

Creato il 16 aprile 2012 da Povna @povna

Anche nella regione della ‘povna si è fatto un gran parlare, ultimamente, del provvedimento che ha sancito la possibilità, per la grande distribuzione, di restare aperta la domenica.
“Bene!” – hanno commentato alcuni.
“Boh” – hanno chiarito altri.
“Molto male, così non si crea lavoro vero, anzi”; “Si impoveriscono domanda e offerta”; “Sciopero!” – hanno tuonato, in un molto significativo unisono, rappresentanti di Confcommercio e sindacati.
La ‘povna – che ai lavoretti ‘alimentari’ ha dedicato una costante porzione della sua vita giovane, anche se erano pagati il minimo previsto dal contratto, e a termine – dal canto suo aveva pensato che vedeva perfettamente l’interesse di catene e supermarket, e però, nello stesso tempo, non riusciva a valutare la notizia con l’indignazione civile e acritica che le veniva chiesto di manifestare. Sarà che, vissuta a lungo nel mondo anglosassone (ma più in generale all’estero), a certe cose si è abituata da tempo. Oppure più probabilmente che vale la sua già citata esperienza di studente, in nome della quale lei – per esempio facendo la trimestrale in biblioteca per due anni di seguito – ha messo da parte i soldi per pagarsi l’affitto quando fosse andata via da Hogwarts, alla fine del quarto anno; oppure (perché no) qualche piccolo lusso: il cineclub quando le pareva, un viaggio, la birretta – il tutto (va da sé) sempre senza chiedere soldi a casa. In ogni caso, sedatesi le prime e urlatissime polemiche, la questione sembrava essersi sopita così, naturalmente, lasciando l’onere della scelta a tutta una serie di casualità varie e non sempre ben chiarite nel dettaglio – secondo un costume tutto italiano.
Ieri però – mentre prendeva il caffè e sfogliava il quotidiano nel bar sotto quella che tra poco non sarà più la sua casetta – l’occhio è stato attirato da un articolo: pare infatti che all’annuncio fatto da un supermarket (che offre appunto lavoro per quattro domeniche al mese, contratto regolare, per un totale di 300 euro) abbiano risposto in circa quattromila studenti, che hanno inviato telematicamente il curriculum e si sono dichiarati ben disposti a lavorare.
Le pagine successive, sopra e sotto la notizia, riportavano critiche un po’ da ogni parte: negozianti al piccolo dettaglio, di nuovo associazioni sindacali, il movimento Cinque Stelle, persino la chiesa. E la ‘povna, ancora una volta, è stata presa in contropiede da una miopia interpretativa ricorrente che tutto annega in un identico provincialismo; e avrebbe voluto rispondere, sobriamente, che la mancanza di forme di lavoro di questo tipo articolate e costanti (e indirizzate soprattutto a giovani e studenti), in Italia, ancora all’alba del terzo millennio, è, in effetti, una vergogna. Che, certo, da sola non basta a spiegare come mai da noi lo stato sociale, il diritto allo studio, alla casa, al mantenimento restino ancora tutti attribuiti a quel surrogato proteiforme che prende il nome di “famiglia”; ma qualche aiuto a interpretare la situazione indubbiamente lo fornisce. E che 300 euro al mese vogliono dire (per esempio nel mercato della piccola città) una camera singola; e che pertanto lei non trova proprio niente di male che dei ragazzi tra i 18 e 25 anni scelgano di passare 4 domeniche al mese, per un trimestre, a guadagnarle con onorato sudore della fronte, invece che prenderle come dovute e garantite, da mamma e babbo, a casa.
E vorrebbe anche aggiungere, così, en passant (e non solo per amore di polemica), che il fatto che tutto questo sfugga (e sia sfuggito per gli scorsi quarant’anni) a coloro che dovrebbero tutelare i diritti del lavoratore (e dunque avere una visione progressiva della società tutta) le sembra soprattutto triste. O, peggio ancora, del tutto prevedibile. Ed è proprio questo che la fa arrabbiare.


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