di ritorno nella camera

Creato il 05 dicembre 2014 da Vivianascarinci

t’occultavi in stanze
richiedendo avvocature
ai libri.
Se la querela cresceva,
come una spinta uguale e contraria,
ritiravi la causa.
Le carte ingiallivano,
come la gran parte delle immagini.
I rinvii erano ripiegare il desiderio,
il prevalere del recente,
un irritato oblio
del bene più lontano. gc

A volte la funzione di una domanda non è tanto quella di ottenere una risposta quanto di guadagnarsi un varco che schiuda sulla continuità di un discorso altrimenti discontinuo. Soprattutto se si tratta di poesia, la domanda assume di riflesso le stesse pause, ingiunzioni, esitazioni di un’inchiesta in cui non esistono risposte ma aperture su vere proprie camere di condizionamento.

Camera di condizionamento operante è un libriccino edito da Edizioni L’Arca Felice, l’autore è Giacomo Cerrai. Si tratta di un poema che fin dal titolo si rifà alla cosiddetta Skinner box che più o meno tutti abbiamo presente: quella gabbietta o scatola di vetro in cui viene posto a scopo sperimentale un topolino affamato. La gabbia è attrezzata per elargire cibo se il topolino apprende che c’è modo di averne in abbondanza. Ciò avviene secondo la forza che la cavia capisce di dover imprimere sul pulsante preposto all’elargizione.

La raccolta di Cerrai conduce lo sguardo di chi legge in una specie di camera di incubazione di apprendimento collaterale. Incubazione perché i versi più che generare certezze, covano possibilità. Collaterale perché l’apprendistato non passa per vie dirette, in quanto lo sguardo che il testo esige, spinge l’osservatore a una quota alterata rispetto l’altezza in cui ognuno normalmente pone il proprio orizzonte.

Il condizionamento operante è una procedura di modifica del comportamento di un essere, ossia è una modalità attraverso la quale chi è coinvolto, mediante l’apprendimento, finisce per agire efficacemente sull’ambiente, e lo modifica. Il condizionamento che Cerrai con questa raccolta vuole operare, viene attuato dall’ambientazione di un dialogo in cui, dell’interlocutore, si sa non più di quanto si sappia rispetto all’opacità che avvolge l’esperienza. Di ciò che accade in questa camera sappiamo solo qualcosa che ci arriva dalle nostre percezioni. Sappiamo come queste possono fortunosamente aumentare la probabilità di emissione tanto di una certa risposta, quanto possano generare conseguenze impraticabili. Ciò in una ricognizione empirica dello spazio in cui l’unico dato reale resta la formulazione di un bisogno che dove non affama spiazza ogni interlocuzione.

“La realtà acquista un linguaggio nuovo” scriveva Bachmann “ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé, come se essa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto”. Chi, come Cerrai, pratica da lungo tempo la poesia degli altri, oltre che la propria, sa bene che il linguaggio poetico non può esimersi da un rapporto vivo per quanto imperscrutabile con l’esperienza di chi ne è l’artefice. Chi legge poesia oltre che scriverla, sa, che quando va bene, e solo dopo molto tempo, quello scatto conoscitivo può essere la causa insospettabile di una querela magari non risolutiva, ma verissima.


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