Tempo fa, non so dire quanto, direi nell’ordine dei mesi, non so dire quanti, Maria Silvano mi scrisse. Maria è una fotografa, e io di fotografia ne so poco e niente, ma le cose di Maria mi piacciono perché raccolgono i nostri piccoli mondi che si sgretolano, le sgranature, il sovrappensiero. Sta di fatto che Maria mi scrisse per spiegare che nella sua casa a Berlino ha una valigia color carta da zucchero piena di foto scattate e poi non utilizzate, traboccante storie non raccontate. Chiedeva Maria se avessi voglia di sceglierne una e scriverci un breve racconto, a riguardo della foto non avrei avuto alcuna informazione sul come e il perché e il dove e il quando fosse stata scattata. Tempo dopo, cioè stamattina davanti a un succo al pomodoro e con le gambe stese al sole di Campo Santa Margherita, Maria bellissima con i capelli tricolore mi ha consegnato due copie di “La valigia carta da zucchero”. Il tempo passato nel mezzo ci ha restituito un librino autoprodotto e prezioso, fatto di una introduzione e tredici foto, ognuna accompagnata da un qualcosa di scritto. Ci sono racconti brevi e meno brevi, c’è chi ha scritto una poesia e chi una sola frase, chi in italiano, chi in inglese e chi in tedesco. Oltre al mio ci sono anche i testi di due persone care. Non ci siamo consultate a riguardo. A pagina sei Gaia da Barcellona scrive “Penserò agli incontri. Ai nomi che ho dimenticato. Alle liste. Alle spese. Alle nonne. Poi mi chiederò come sono finita a pensare alle nonne. Non saprò rispondere ma mi verrà in mente che oggi ho trovato molti capelli bianchi . Molti più di quelli che c’erano l’ultima volta che ho guardato. Allora mi ricorderò a cosa stavo pensando. Ah, già. Qui.”
A pagina ventisei io da Venezia scrivo “Ci sarà anche altrove questa luce arancione. Questo muso umido anche, verrà nel nostro nuovo posto (…). Ci sarà anche altrove questa luce arancione. Casa non è dove ci sono i muri e i tetti, quello è un giusto riparo. Casa è Gaia, è questo muso umido. Sono io.”
A pagina trentaquattro Giulia dalla Scozia scrive “Cosa facessimo per davvero rimane però un oggetto di indagine francamente misterioso. Forse ci trascinavamo di stanza in stanza con la scusa dello studio, della scrittura di una tesi o di un romanzo d’esordio, dell’invio insonorizzato di curricula. C’era chi aveva un lavoro, ma l’occupazione principale rimaneva quella di vagare per la casa o di stare nella cucina. Forse ci stavamo prendendo del tempo per noi, molto più probabilmente procrastinavamo l’età adulta l’inevitabile imborghesimento da cui non si può tornare indietro. Un giorno la casa stabilì che era giunto il momento di rigettarci.”
Volevo dunque dire che mi è piaciuto che io e Norman, che poi sarebbe Giulia, si siano entrambe scritte cose di traslochi senza previo consulto. L’altra cosa è che una volta, quattro anni fa in una casa perfetta con un divano sfondato, Gaia mi ha detto “nel romanzo che stai scrivendo per favore mettici anche qualcosa che mi riguarda, basta una stronzata, una cosa insignificante, una cosa che capiamo solo io e te”. Poi però mi sa che non gliel’ho mai detto che dopo quel momento la protagonista di quello e di tutti i racconti l’ho chiamata Gaia. Anche in questo, anche se non parla di lei. Perché tanto mi pare di capire a leggere queste righe di persone diverse, scritte in posti diversi e su argomenti diversi, il racconto è uno e unico e il racconto fa saltare tutto, anche il tempo e la distanza.
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“Sotto il mobile del mio salotto vive una valigia color carta da zucchero dono di un nonno o di un fratello, non ricordo più o forse non importa. Nell’arco dei miei ultimi due anni a Berlino ha raggiunto il peso romantico dei ricordi fatti di fotografie. I miei mesi si sono trasformati in pellicola.
Ho deciso di lanciare una sfida ad alcuni amici a cui, più di altri ho avuto voglia di affidare il mio piccolo tesoro fatto di resti, rimasugli, errori, dimenticanze. (…)
Il mio punto di vista non esiste più.
Un nuovo ricordo ha preso posto nella mia vita.”
Maria Silvano, introduzione a “La valigia carta da zucchero”, 2015