Magazine Società
Lacor Hospital, 24 settembre
"In some ways, pain is like a rat - something that causes a lot of suffering but is often hidden from view"Il corso di "pain management" al Lacor Hospital di Gulu si apre con il disegno di un grosso ratto peloso, su sfondo bianco. Per me è anche una buona occasione per passare un mercoledì diverso dagli altri, lontano dal lungo giro visite in reparto e dell'ambulatorio di ecocardiografia.Il dottor Andrew, un anestesista britannico esperto di terapia del dolore, è un lungo signore di cinquant'anni, con pochi capelli corti e imbiancati, un impeccabile accento inglese e un'abbondante dose di entusiasmo, requisito fondamentale per portare in giro per l'Africa subsahariana un corso come questo.Ieri pomeriggio, dopo un lauto pranzo in guesthouse, mangiando una fetta d'ananas fresco, ci ha raccontato di una vita spesa in giro per il mondo. Non senza qualche parola di italiano, apprezzatissima.Basta poco e, anche grazie all'entusiasmo della moglie Clare, collega parecchio più bassa di lui, con i capelli a caschetto neri e una gentilezza impagabile, la sala conferenze della Nurse School si trasforma in un centro congressi internazionale.
Siamo in una stanza di 150 metri quadrati, le finestre sui lati sono coperte da tende rosse che lasciano filtrare la luce da fuori. È una bella giornata, incastrata tra un temporale e l'altro, in questa stagione delle piogge che a volte sembra non finire mai.Sulla parete in fondo, in alto, c'è uno stemma con il simbolo dell'Uganda: una gru coronata che poggia le zampe sulla scritta "for God and My country". Dopo la registrazione dei partecipanti all'ingresso, ci consegnano un plico riassuntivo e una penna BIC. Ci sediamo sulle sedie marroni e dopo qualche minuto uno degli organizzatori passa a distribuire un'etichetta adesiva dove qualcuno ha scritto in pennarello indelebile nero i nostri nomi, correttamente.Dopo la tradizionale cerimonia di ringraziamenti iniziale i relatori si alternano a raccontarci che il dolore può essere acuto o cronico, neuropatico o nocicettivo, curato o ignorato.
Sono con una collega fisioterapista di Milano, il mio inglese stentato e scolastico e un provvidenziale Smartphone con tanto di vocabolario inglese-italiano.Ci perdiamo interi brani di discorso quando qualche medico ugandese sfoggia il più classico dei discorsi a mezza voce, mangiandosi qualche consonante di troppo.La dottoressa Stella (si, perchè qui i dottori si chiamano con il nome di battesimo), costretta in tailleur di un colore verde lucente e con un paio di occhiali calati sul naso come una professoressa di matematica, apre il suo intervento ("pain drugs") chiedendoci di alzarci un paio di minuti per fare un po' di stretching.Ci dividono in gruppi e, una volta seduto, i pantaloni troppo corti del mio tutor lasciano intravedere dei calzini di spugna con la faccia di Che Guevara. Immagino la stessa scena con qualche primario milanese e scoppio a ridere da solo.Dopo un paio d'ore c'è la pausa caffè (solubile) con tanto di uovo sodo e banana. Ma prima tutti in fila per lavarsi le mani: un ragazzo del cathering con la pettorina arancione inclina un grosso bidone pieno d'acqua ogni volta che un avventore si avvicina con la saponetta tra le mani.Tutti prendono un piattino e si siedono ordinatamente al loro posto. Gli europei bevono a canna bevande gassate da bottiglie di vetro, gli africani immergono biscotti dentro tazze di the bollente; il che non mi fa ben sperare per l'imminente arrivo di quella che qui, secondo i miei calcoli, dovrebbe essere l'estate.Approfitto della sosta per osservare i dipinti sui muri. Qui, come in molti altri punti dell'ospedale, ci sono delle gigantografie dei coniugi Corti (Piero e Lucille) e del dottor Matthew. Personaggi d'altri tempi, che rivivono nel ricordo in questi corridoi, dove le infermiere in divisa d'ordinanza con il loro classico cappellino, distribuiscono farmaci a intervalli regolari ai pazienti.
Il corso sta per ricominciare, smetto di fare fotografie e finisco il caffè appena prima che un anestesista di Kampala cominci a raccontarci le "principali barriere nella prescrizione di farmaci antidolorifici". Prima bisogna far ripartire il proiettore, che sembra dotato di vita propria almeno quanto uno dei babbuini che si vedono ai bordi della strada verso la capitale.
Mi sento la testa vuota, ogni tanto ho qualche crampo allo stomaco, ma in fondo sono un po' contento, perché essere contento, un mercoledì qualsiasi, di fare qualcosa che esuli dalla normale routine significa averla un po' raggiunta, questa agognata routine.
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