D(i)ario Argento, la mia storia d'amore con il re del Giallo (N°2): Il Gatto a Nove Code

Creato il 23 novembre 2014 da Giuseppe Armellini

Seconda puntata del viaggio nella filmografia argentiana di Miriam (qui il suo blog)
Vi piacerebbe stare contemporaneamente a Roma e a Torino? Nel (magico) mondo di Dario Argento questo è possibile – ora avete un altro motivo per amarlo. Il Gatto a Nove Code (1971) è uno dei tre film torineschi (torinesi e romaneschi) di Argento: girati a Torino e ambientati a Roma. Con quest’opera Dario Argento lascia il caso in mano a uno dei protagonisti più brillanti e geniali della sua filmografia. Chi meglio di un enigmista può risolvere un enigma? Franco Arnò, affettuosamente chiamato “Biscottino” dalla nipote, un enigmista cieco, è testimone di un crimine. Inoltre, con questo micetto, Dario ci fa le fusa regalandoci una serie di morti spettacolari (dico solo: garrota, sbattimento di faccia compulsivo, ASCENSORE) e di momenti di grande suspence (cimitero).Tutta la trama ruota attorno a un istituto di ricerca in cui ci si occupa di genetica. L’istituto è avvolto dal mistero, sono tutti omertosi e nessuno vuole rivelare di cosa si occupino.

Dato che la trama è ipercomplessa e la mia missione del giorno è quella di non spoilerare, facciamo una hit parade delle 9 code cose che adoro di questo film?

1 La primissima sequenza, quella che ci dice che Biscottino è speciale: non serve nemmeno un minuto per capire quanto acuto e determinante sarà il suo personaggio - prima di sapere che era un giornalista, sentiamo che in lui c’è qualcosa in più, un’attenzione speciale, acuta, insolita e lo avvertiamo già dalla prima sequenza, quella in cui cammina per strada con la nipote e sente degli uomini parlare e capisce che c’è qualcosa di losco. Dopo un minuto sappiamo già che lui è diverso. E la tenerezza con cui si occupa della nipotina è un elemento forse non funzionale ai fini della storia, ma che costruisce ulteriormente la personalità di un personaggio che, più che in altre opere, viene approfondito in più direzioni dal nostro adorato DA. Ma, soprattutto: lui, cieco, sente meglio degli altri e, perciò, indossa gli occhi dell’assassino, mentre questo si aggira per i corridoi dell’istituto di genetica per sottrarre qualcosa che ci viene tenuto nascosto per l’intero film. Ho trovato il modo in cui un senso viene sotituito non solo con un altro – l’udito più acuto -, ma con uno dei sensi dell’assassino geniale e raffinato.

2 La morte di Bianca, la fidanzata della prima vittima: qui mi sento obbligata a fare una brevissima digressione (so che, ormai conoscendomi un po’, “brevissima” potrà sembrare un aggettivo poco rappresentativo, ma ci provo). Siccome siamo nel 1971 e ancora non c’era La signora in giallo, anche qui, come in molti altri film di Dario Argento, incontriamo da subito un personaggio dal ruolo ricorrente in ogni film giallo che si rispetti: quello che se la va a cercare. Nello specifico, uno degli alti dirigenti dell’istituto, tale dott. Calabresi, che dice alla fidanzata di essere l’unico a sapere cosa sia stato rubato e che intende usare l’informazione a suo vantaggio. Annunciare una cosa del genere equivale sempre a morte certa e, infatti, finisce immediatamente sotto a un treno – tocco di classe: paparazzi che fotografano un’attricetta che si mette in posa e uno di loro dice “ridi, ridi stronza, tanto c’è morto uno sotto er treno tuo”. Ecco. La fidanzata, pure lei non conosce quello che ormai potremmo definire come il secondo principio della giallodinamica, ovvero che se dici “so chi è l’assassino”, “ho un’informazione fondamentale e la voglio usare a mio vantaggio” e cose simili, sei morto. Stop. E quindi telefona ad Arnò e dice proprio “so chi ha ucciso il mio fidanzato, ma voglio dirglielo di persona”. Tempo dieci secondi e viene assassinata con una tigna che non ci si può credere: l’omicida le sbatte la testa contro il pavimento giusto quel numero di volte necessario a farci distogliere lo sguardo. Che proprio ci immaginiamo Dario sulla sua sedia da regista che dice: “dai, ancora un paio di volte e ci siamo”.

3 Una delle sequenze più eleganti della storia del Giallo e del cinema in generale, quella dell’omicidio del fotografo: una volta ristampato il negativo della foto in cui compare parte dell’assassino (e chi si accorge che nella foto pubblicata manca qualcosa? Il ciechissimo Biscottino – ste magie succedono solo con Dario), questi viene garrotato nella slavata luce della camera oscura, dove dominano le tinte fredde. E, ancora una volta, noi siamo gli occhi dell’assassino, che incrocia Giordani proprio dopo aver commesso il delitto all’uscita dal palazzo che stava dietro casa mia a Torino (un palazzo di una bellezza abbacinante, tra l’altro, che ogni volta che ci passavo mi dicevo: quando avrò i soldi per l’affitto, abiterò lì!). Questa sequenza è fenomenale perché, oltre a fare l’utilizzo del montaggio di frame che anticipano – una cosa che Dario fa spesso e che mi fa impazzire -, alterna inquadrature del cadavere, di Giordani e di Biscottino e nipote che sono in macchina fuori dall’edificio e, soprattutto, dell’iride dell’assassino che si allontana dalla scena del crimine. Non sarà a nove code, ma questa sequenza mantiene una complessità sofisticata e una fluidità per cui ci sentiamo trascinati con dolcezza verso la successiva. E ci mette addosso una voglia di saperne di più che non ci disincolleremmo dallo schermo manco se sentissimo la solita musichetta suonata nella penultima ottava del piano e ci vedessimo piombare addosso un paio di guanti di pelle nera.

4 L’inseguimento in auto per le strade di Torino/Roma, che è un rapidissimo tour di alcuni dei luoghi più belli di Torino e mi sembra di usare Google Earth perché passano pure nella via dove abitavo io. Lacrimuccia.

5 La scena del barbiere, che costituisce uno dei migliori esempi dell’ironia di Dario Argento: difficile smettere di ridere e, quando un horror fa ridere, ma mantiene un alto livello di tensione, allora siamo di fronte al meglio di quello che il cinema di genere possa offrire.

6 Franco Arnò/Biscottino che cucina le uova: sarà anche cieco, ma, ai fornelli, è molto più abile di me, che ho i famosi dieci decimi.

7 Tutte le soggettive con gli occhi dell’assassino, che ci mettono nella scomoda posizione di essere lui/lei e che ben si raccordano con le riprese più fluide che ritraggono i personaggi di spalle o di lato – prospettive poco rassicuranti se siamo in un cimitero, di notte (va beh che uno è cieco) e, poi, tocco di classe (?) su una delle tombe c’è scritto “DI DARIO”. L’intera sequenza del cimitero ci fa dubitare di tutto in modo geniale: solo Dario potrebbe farci dubitare dell’onestà di uno con la faccia di Karl Malden.

8 Un ommioddio se lo merita la scena dell’ascensore: una delle meglio morti di sempre. Non solo precipiti nel vano dell’ascensore, che già di suo dev’essere un’esperienza di merda traumatica e il preludio a una morte atroce, ma pure, per istinto di conservazione, ti attacchi a mani nude alle corde, una cosa che penso faccia talmente male che la morta immediata è meglio.

9 Il finale-finale santo cielo ommioddio che non posso non spoilerare un pochino, quindi copritevi gli occhi o smettete di leggere anche se non rivelerò chi è l’assassino, perché non posso fare a meno di gridare anche io “Biscottino!” che è una nota agrodolce con cui concludere il film ed è un modello di finale che ritroveremo a raffica nel cinema di genere e non solo, ma qui, quando la risoluzione del whodunnit ci ha già fatto entusiasmare, qui, ragazzi, quel “Biscottino” urlato con quella vocina dopo tutto quello che è successo, qui ci si spezza il cuore.


 Miao.  

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