D(i)ario Argento, la mia storia d'amore con il re del Giallo (N°3): 4 mosche di velluto grigio

Creato il 18 dicembre 2014 da Giuseppe Armellini
Quattro del mattino, mezz’ora di sonno alle spalle, gli occhi sbarrati al soffitto che rimirano le increspature create dalla luce della tv. L’insonnia èstata, per anni, una fedele e fastidiosa compagna quando ancora abitavo dai miei (qualunque psicospicciolo tenterebbe ora di stabilire una correlazione di natura freudiana tra i due eventi, ma non è questo il caso) e l’ho odiata come Zenigata odiava Lupin, che però poi se una notte dormivo piùdi tre ore mi sentivo stordita e pure un po’ indispettita. Ecco. Una di quelle notti, zappingando e guardando le rispettive increspature luminose, ho incontrato Quattro Mosche di Velluto Grigio. Era la prima volta che vedevo un film di Dario Argento per intero e per davvero (di suo conoscevo solo gli esperimenti del rapitore che si spaccia per lui/l’alieno che lo ha rimpiazzato, scegliete voi). E non ho più smesso.
Questo terzo film di Argento, terzo anche della sua Trilogia degli Animali, ha una serie di particolarità, prima tra tutte i titoli di testa che sono accattivantissimi: la jam session della band, che ci introduce il protagonista, Roberto Tobias (Micheal Brandon, ennesimo esemplare della stirpe degli attori semisconosciuti di serie B [per essere gentili] che il nostro Dario si è ostinato a utilizzare nei suoi film, Karl Malden escluso, che ancora non mi racapezzo di tutto quel talento), contrappuntanta dalle pulsazioni di un cuore che batte (cioè, vediamo proprio il cuore, tutto viscido-traslucido, che pompa sangue) e da microsequenze in cui ci viene mostrato il batterista che si accorge di essere seguito. Siamo giàagitati e allarmati. Che stile, godeteveli perchésono divini: https://www.youtube.com/watch?v=hGTpMJ-M-w8. Che sia cosìcatchy lo dobbiamo anche al giovane Ennio Morricone, che prometteva già benissimo. Questa sequenza introduttiva ci getta in medias res con l’animo giusto: siamo tutti tesi, un po’ ancora iperattivati dalla musica incalzante che ci soprendiamo a ballicchiare mentre Roberto nota nuovamente l’uomo che lo segue da giorni e che decide di affrontare – maddai Robbé, ma cosa ti viene in mente? Èbuio, sei in ansia, hai le palle girate con l’altro della band che va fuori tempo, non mi pare che tu sia proprio nel mood per seguire il tuo inseguitore a tua volta, comunque. La sequenza èambientata in un teatro: c’èuna colluttazione, Roberto uccide per sbaglio l’altro uomo e una creaturina che indossa una maschera che inquietante non rende niente bene il brivido lungo la schiena che ti provoca 
(http://www.filmhorror.com/upload/galleria/img/422_Four-Flies-on-Grey-Velvet-DVD.jpg) inizia a scattare delle foto con le quali inizieràa minacciare e perseguitare l’uomo. Il povero Roberto, lo capiamo subito, èfregato e la sua preoccupazione cresce proporzionalmente all’esuberanza delle sue espressioni facciali che arrivano a toccare degli estremi da film muto – forse non volutissimi dal povero Micheal Brandon che saràun tanto caro ragazzo, ma non èproprio un attorone – (tipo qui http://www.pifff.fr/2012/images/43/slide1.jpg, non vi ricorda questo qui http://laltrocinema.files.wordpress.com/2012/01/il-gabinetto-del-dottor-caligari-conrad-veidt-foto-dal-film-01.jpg? Okay, magari sto un pochino esagerando). In questo il film èdiverso dai precedenti, dove, tutto sommato, i personaggi che tentavano di districare il mistero erano dei simpatici curiosoni. Qui Roberto deve indagare perchéne va della sua libertàe, nel farlo, viene aiutato da una serie di personaggi bizzarri, primo tra tutti Dio/Diomede, interpretato da – ommioddio – Bud Spencer. La sequenza in cui Roberto decide di rivolgersi a Diomede èun concentrato di ironia argentiana, dove il personaggio di Dio viene presentato come un vero e proprio deus ex machina (il frame con cui ci viene introdotto, dai colori soffici e pastello, sembra l’inizio di una sequenza onirica e la musica èepica), sebbene viva in una baracca in riva al fiume (piùmarktwainiano di così). Dio affida Roberto al Professore, un clochard dalle buone maniere – così ci viene presentato – cui viene dato il compito di sorvegliare la casa del musicista e Arrosio, un investigatore privato omosessuale la cui rappresentazione stilizzata risulta simpatica e ironica finché, nel corso delle indagini, non incontra un testimone, anch’egli omosessuale e la macchiettizzazione dei personaggi diviene davvero eccessiva – no Dario, non èche tu abbia proprio esagerato, eh, peròspingere un po’ meno il piedino sul pedale della stigmatizzazione, seppur simpaticona, non sarebbe stata una cattiva idea. Comunque, simpatico, non c’èche dire. Manco a dirlo, Arrosio, che dopo 84 fallimenti aveva praticamente risolto il caso, faràuna pessima fine, ma con il sorriso sulle labbra perché, per una volta, ce l’aveva fatta. Il film segue il solito whodunnit argentiano come i due precedenti, abbiamo sempre la soggettiva dell’assassino quando si avventa sulle vittime e una trama intricata come il cavo del caricabatterie del cellulare dopo che lo togliamo dalla valigia, ma la traccia principale è veramente minimal chic: tutti quelli che muoiono (e non sono pochi, come al solito il buon Dario sa cosa ci piace), muoiono perché sanno o scoprono quello che sta accadendo a Roberto. La sequenza migliore, in questi termini, èquella dell’omicidio della cameriera, ovvero la sequenza nel parco. La donna aveva sentito il musicista dire alla moglie, Nina, che aveva ucciso un uomo e aveva immediatamente pensato di guadagnarci: ancora una volta, pure questa della giallodinamica se ne frega e fa la famosa telefonata in cui dice che sa cose e poi va al parco ad aspettare la persona da cui si aspetta di ricevere dei soldi. E aspetta. E aspetta. E aspetta, aspetta, aspetta talmente tanto che anche noi diventiamo nervosi. E poi, non c’èpiù nessuno. Fisicamente le persone attorno a lei spariscono come bolle di sapone e, questa rappresentazione, che se volete potrebbe forse sembrare quasi da film d’animazione, èperfetta per aumentare la tensione. Ci rendiamo conto che, da un momento all’altro, la donna èrimasta sola. Sappiamo giàche morirà, lo sappiamo da quando abbiamo visto la sua faccia furbetta che pensava ai soldi, ancora prima di raccogliere la cornetta del telefono e condannarsi da sè. Ma tutta sta gente che sparisce con un soffio mette un’angoscia che non ci si puòcredere. Solo che poi, appena si accorge di essere inseguita, abbiamo ancora più paura e quando si infila in un’intercapedine dietro ai mausolei e si sente la pelle che gratta contro il muro e le ragnatele che si impigliano nei capelli ci viene una sorta di asma emozionale – sta frase sembra scritta dai Subsonica, scusate – per cui stiamo aggrappati alle coperte e, alla fine, speriamo che l’assassino la uccida in fretta, perchédi tutta questa tensione – di cui Dario èmaestro indiscusso – non se ne puòpiù. Questa sequenza èspettacolare, èmagia pura, perchésappiamo cosa sta per accadere, siamo spettatori abbastanza edotti di cinema di genere – io un pochino, certe cose ormai me le aspetto – e fruitori abbastanza scaltri di horror, eppure abbiamo paura. Siamo talmente tesi che potremmo rimbalzare qualunque oggetto. E, tutto questo, solo un grande maestro puòfarlo. Un grande merito di questa sequenza èanche quello di essere talmente perfetta da fagocitarsi qualche scivolonescivolino come il recupero dell’immagine impressa sulla retina al momento della morte – perdonabile, ma non a quella cialtronata di Imago Mortis, di pochi anni fa, dove il concetto era lo stesso – e il finale, che funziona bene fino al disvelamento dell’assassino (e non vi dico chi è, ma ancora una volta torna il trauma nelle sue declinazione più care al cinema di Argento, ossia SPOILER il trauma infantile e il trauma femminile FINE SPOILER), ma si accartoccia su sèstesso quando (SPOILER NON GRAVISSIMO MA COMUNQUE IO FOSSI IN VOI EVITEREI DI LEGGERE LA PROSSIMA RIGA SE NON AVETE MAI VISTO IL FILM E, SE NON L’AVETE MAI VISTO, DOVETE RIMEDIARE, CHE ÈBELLO) l’omicida viene messo in fuga dall’arrivo di Diomede – in effetti il Bud la sua presenza scenica ce l’ha – e finisce contro un camion, morendo tra le fiamme di un’esplosione spettacolare (FINE SPOILER). Questo film per me è, come scrivevo nell’intro, speciale. Oltre a essere forse il più ironico della filmografia del mio adorato Dario, ci sono affezionata, legata e ricordo con un sorriso come la nottataccia con i capelli sconvolti e le occhiaie tipo fossa delle marianne che sembrava non finire mai èstata resa sopportabile da questo film del Maestro. Avete presente quando vi capita di avere un grosso ruolo nella formazione di una di quelle belle coppie, una di quelle che funzionano proprio bene eccetera eccetera e ne andate fierissimi? Ecco, l’insonnia, se mai potesse vantarsi di qualcosa con qualcuno, sarebbe di aver fatto incontrare me e il cinema di Dario Argento. E vissero per sempre felici e contenti.

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