D(I)Ario Argento, la mia storia d'amore con il Re del Giallo (N°4): Profondo Rosso

Creato il 18 gennaio 2015 da Giuseppe Armellini
Che cos’è quella cosa che ti entra in testa e non ne esce mai più? Beh, ci sono più risposte a questa domanda e non mutamente escludentisi (meno male che devo scrivere e non parlare, altrimenti sarei già inciampata su me stessa). Ovviamente, se siete Dario Argento, le risposte sono: le musichine infantili e i traumi. Come correlano (oh, lo so che non correlano statisticamente, ma questo è un luogo di pace, horror e gioia e la statistica è vietata pena la morte per noia) queste due cose? Più rivedo i suoi film, più mi accorgo – oddio, non che non l’avessi già notato, ma da qualche parte devo pur iniziare – che il trauma ha un ruolo fondamentale nelle opere di DA. E questa tendenza cresce di film in film e, da qui in poi, a rappresentare l’oscuro oggetto che, nel passato del killer, ha avuto un ruolo tale da trasformarlo in un maniaco, ci saranno, talvolta, delle agghiaccianti musichine che rendono il buon Dario, a pieno titolo, un juke-box del trauma.
Profondo Rosso (1975). E lo so che vi è già partito il tema principale dei Goblin, quello che fa cosìma questo capolavoro che sta per compiere ben 40 anni, è responsabile degli incubi di buona parte dei bambini di allora e di adesso e dei decenni in mezzo – ossia: la paura è transgenerazionale quando c’è Dario dietro la macchina da presa – anche grazie a questo incubo sonoro qui Vi si è accapponata la pelle? Bene. Adesso possiamo iniziare.Anche Profondo Rosso, come il suo fratellino precedente, inizia con una band che fa le prove in un locale vuoto. Anche qui jazz. E il pianista, che ha tutta l’aria di essere il capo (ergo, gli succederà qualcosa che lo farà diventare il protagonista della storia, ormai conosciamo il nostro Dario), dice: bene. Forse troppo bene, mentre la camera si avvicina fluidamente al suo personaggio. Dev’essere più buttato lì. Dario Argento ci sta già dicendo che vuole essere sguaiato, coraggioso, scardinare le vecchie sicurezze, andare un po’ al di là delle righe. Ce lo sta meta-dicendo e ci metterà tutto il suo impegno per dimostrarcelo nelle due ore a seguire. Che al nostro Dario piacesse il sovrannaturale, lo possiamo già intuire dalla sequenza che segue immediatamente, dove una medium si accorge immediatamente che, tra il pubblico del convengo di parapsicologia di cui è l’attrazione principale, si nasconde un’anima tormentata e crudele. Un mostro le cui sembianze non può vedere, ma di cui può vedere l’orrore interiore. Qui l’uso che il nostro regista di horror preferito fa della soggettiva aumenta la suspense e ci mette nella terribile condizione di essere gli occhi dell’assassino. Questa è una condizione che ci spinge in una zona per nulla confortevole in cui non vorremmo mai stare – mai estrema quanto la soggettiva di Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti di Demme, dove siamo proprio lui, l’assassino, il seriale. Di nuovo ci ritroviamo a fare i conti con il secondo principio della giallodinamica: la povera medium, che non ha imparato niente da tutte le puntate del Tenente Colombo, dove si capisce che se dici: “so chi è l’assassino”, “ho scoperto una cosa orribile che devo assolutamente dirti di persona”, ecc. ecc. è matematico che muori, ha la brillante intuizione di dire che sa che tra il pubblico c’è un assassino e, più tardi, rivelerà (mentre questo è ancora in teatro e la osserva) di sapere di chi si tratta. Brava, complimenti. Hai fatto tutto quello che non dovevi fare. E adesso non ti stupire se il tuo cadavere giace in piazza Cln perché l’omicida ha fatto irruzione nel tuo appartamento arredato con un po’ troppo entusiasmo per il velluto rosso e il rococò estremo e ti ha eliminata. Ce lo aspettavamo. Però qui finiscono le cose che potevamo aspettarci, perché, da qui in poi, è tutto un rotolare giù per la scoscesa scarpata della fantasia del signor Argento, una scarpata dove a rotolare ti ci fai un male cane. ATTENZIONE: SEGUONO SPOILER DI PROPORZIONI GODZILLIANEEd è il povero Marc Daly (David Hemmings) a scendere questa scarpata nel momento in cui sente le grida della donna e si precipita su per le scale del palazzo nel tentativo di salvarla, fallendo, ma portandosi via, oltre allo shock, la consapevolezza di aver visto qualcosa di estemamente importante, di risolutivo, ma non sa cosa. Allora, io il film l’ho visto qualche volta (qualche = non si dice altrimenti mi internano, adesso) e, una volta che lo sai, te ne accorgi di questo dettaglio, alla seconda visione. E questo è un punto di forza del film: lo noti perché sai che è lì e trovarlo ti fa capire quanta cura Dario Argento abbia messo nel costruire quella sequenza, quella scena, quel frame particolare che tiene in piedi buona parte del castello. Si tratta di un dettaglio geniale: la vecchia nel quadro c’è. Lei è appoggiata contro questo quadro orrendo appeso al muro e, con il riflesso nello specchio di fronte, sembra parte di esso. È un’omicida in 2D, appiattita. E il sassofonista, nella foga di salvare la medium, non può fare altro che non accorgersene. Da qui parte tutta l’inchiesta, che è la parte che rende Profondo Rosso un giallo piacevole da seguire, in cui Daly è aiutato da una simpaticissima Daria Nicolodi (che interpreta il ruolo della giornalista e per il primo principio giallodinamico è, quindi, una formidabile detective) e in cui torna in modo ricorrente la figura di Carlo, pianista alcolizzato e tormentato amico di Daly, testimone egli stesso della fuga dell’omicida. Tutta questa parte stile whodunnit è arricchita da tocchi che fanno accapponare la pelle, come:
  • la nenia che il killer usa per prendere il coraggio a quattro mani e fare un macello con ogni singola vittima – come se avesse bisogno di un ulteriore boost oltre a essere completamente fuori di testa
  • la bambola penzolante a casa di Amanda Righetti, autrice del racconto della “villa del bambino urlante” in Fantasmi di oggi e leggende nere dell'età moderna (ma anche tu, Amanda, te le vai a cercare, dai, su) che farà una fine raccapricciante, picchiata a sangue e bollita viva nel bagno di casa sua proprio perché conosce l’identità del killer. Tutta la sequenza, che inizia con il tema dei Goblin e l’inquadratura sulla zip dorata dei guanti di pelle nera dell’assassino, la treccia di lana attorno al collo di una bambola e quella ruotata sull’occhio truccato di nero sono spaventose, I corvi di fronte alla casa della scrittrice, il rumore del cancelletto: tutti i suoni sembrano più acuti, più stridenti e amplificati fino a diventare un tappeto sonoro assordante e inquietante, finché solo il bianco quasi accecante dell’occhio del killer, nascosto nell’ombra, emerge, il corvo gracchia e, poi, la morte. L’abbia attesa per tutto il tempo e, al crescere dell’attesa, cresce anche la nostra tensione. La sequenza della morte di Amanda Righetti è un accidenti di capolavoro del Giallo. Della Paura. Del Terrore. (grande Dario!).
  • Olga, la figlia del custode della villa del bambino urlante, che si diverte a torturare le lucertole e che se fosse alta solo quei 30 centimetri in più ci metteremmo mezzo secondo a dire “è stata lei!”
Tutta la parte investigativa è arricchita dall’approfondimento dei personaggi, da quello di Marc, nevrotico, intelligente, a quello dell’amico pianista Carlo, il primo cui aveva parlato delle sue sensazioni sul quadro visto a casa di Helga. Se Marc ha sì il temperamento bizzarro ed eccentrico dell’artista, oscillante tra la spensieratezza e la nevrosi – la scena in cui è al telefono in caffetteria ed è disturbato dai vapori della macchina del caffè e accusa il barista di avergli fatto fare la sauna è totalmente inutile ai fini della storia ma contributiva alla definizione del suo carattere, anche se un po’ stilizzata - tirata al limite della woodyallenità (va beh, si capisce, no?), Carlo è, invece, più sul versante introverso e saturnino e i tormenti del personaggio, dall’alcolismo alla disperazione crescente, sono trattati con estrema attenzione da Argento. Il personaggio di Carlo, più procede la storia, più sembra il candidato ideale per essere l’assassino: è abbastanza folle, disturbato e ha dei continui blackout e sbalzi d’umore sulla base dei quali siamo portati a dubitare che la sua amicizia nei confronti di Marc sia totale e sincera quando Carlo gli dice di lasciare perdere con le indagini, che rischia di perdere la vita. E proprio questo consiglio ci porta alla sequenza in cui Marc si accorge di essere effettivamente minacciato: mentre si esercita al piano si accorge che c’è qualcuno in casa (noi vediamo il pavimento scorrere sotto i piedi dell’assassino in un’agghiacciante soggettiva), in sottofondo parte la nenia accapponante, si sente il cigolio dei passi del maniaco e Marc continua a suonare con una sola mano mentre con l’altra regge una statuetta per difendersi. Il sudore gli gocciola sulle tempie in un extreme close-up che aumenta il termostato della tensione e, poi, il telefono squilla. Gianna. La tensione è spezzata, le nostre aspettative sono frustrate da quella che è una furbata tipica del cinema horror. Ma Dario, invece, non sta al gioco e, mentre Marc è al telefono con Gianna e ci sentiamo tutti di nuovo al sicuro, pensando che lo squillo abbia messo in fuga l’assassino, sentiamo una voce dietro la porta che minaccia il protagonista. L’inquietudine ha raggiunto un livello altissimo e, da qui in poi, una serie di scene in soggettiva ci mostrano quando l’omicida sta osservando Marc, aspettando il momento migliore per eliminarlo. Quindi qui la nenia codifica il trauma infantile, lo rappresenta meglio di qualunque altro significante avrebbe potuto fare. L’espediente geniale è che, quando parte la musichina, sappiamo che qualcuno farà una brutta fine. E scopriamo che questa nenia infernale altro non è che un tappeto sotto cui è nascosta tanta tanta sporcizia. L’infanzia del nostro assassino? Più o meno. La sequenza finale, gli ultimi cinque minuti, quelli in cui Marc, convinto come tutti della colpevolezza di Carlo, si convince invece della sua innocenza, sono un piccolo capolavoro a parte: Marc va a casa di Helga e, camminando per il corridoio che sembra una galleria di arte grottesca, capisce che il quadro che non trovava più era soltanto uno specchio. “Non c’è mai stato un quadro, quello che vedevo era solo un riflesso”. La madre di Carlo sbuca alle sue spalle e, dopo una confessione e una breve lotta, muore. Solo che il modo in cui muore è indimenticabile: la collana si incastra nell’ascensore e qui, di nuovo, passano alcuni secondi, mentre questo è in movimento, prima che la catena inizia a tirare con forza sul collo della donna e, poi, in un attimo, viene decapitata. Con una rapidità impressionante. E rapido è lo spargimento di sangue che lascia una pozza di un rosso profondo in cui Marc si specchia e in cui annegano i titoli di coda. E anche nello shift rispetto a quello che siamo portati ad aspettarci, che il serial killer agisca sulla base di pulsioni dovuti a traumi infantili – che, per carità, capita eh, ma capita in quasi tutti i film – sta l’intelligenza di Dario Argento. Chi se lo sarebbe immaginato che l’assassino era la mamma pazza di Carlo? Chi poteva pensare che lei aveva ucciso il marito, tanti anni prima, in preda alla follia? Chi poteva pensare che il trauma c’era sì, che era sì infantile, ma che non era dell’assassino, ma causato dal killer stesso? Dario Argento, monsieurs y mesdames, chi altri?

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