Rosalba Caruso, di estrazione cattolica cresciuta tra quattro mura borghese, aveva un’intelligenza e un sensibilità tali da svestirsi di qualsiasi etichetta, quelle che il sottobosco paesano avrebbe voluto metterle addosso. All’uscita da scuola, passeggiammo assieme e mi ricordò che le rivoluzioni non si fanno con i bagni di sangue, ma con la forza delle idee. Persino la penna e l’inchiostro potevano essere nel silenzio più efficaci di una spada. Mi mise tra le dita una Bic blu. L’ho conservata in tutti questi anni. La tirai fuori solo nel ’94 – l’anno in cui una brutta malattia me la portò via – per scrivere sul suo feretro “Grazie, professoressa. Ti ho amata come il figlio che non hai mai avuto”.
Oggi, 11 settembre 2013, a quarant’anni dal Golpe in Cile che sfregiò il volto di una parte del Sud America, ho tirato fuori la penna che mi regalò Rosalba Caruso. Non è più la penna di un alunno, ma quella di chi scioglie i suoi 40 anni in un urlo di rabbia e di dolore nell’11 settembre che si prolungò nella dittatura militare di Pinochet, tra la complicità dell’America di Nixon e l’omertà del Vaticano.
La mia intervista a Jorge degli Intillimani nel 2005 fu una scusa per esplorare, attraverso la musica, le ferite del Cile e dei suoi esiliati. Quando uscì il film 11 settembre 2001 ero in Sala Grande al Festival del Cinema di Venezia e contribuii ai lunghi applausi che accompagnarono l’episodio firmato da Ken Loach. La sequenza si chiudeva con uno scrittore cileno che scriveva agli americani: “Oggi, 11 settembre, noi ricorderemo i vostri morti, ma voi, per favore, ricordate anche i nostri”.