Felice Fossati (1893 – 1964), nato da famiglia italiana a Romans, in Francia, studiò a Nancy e poi a Milano dopo il rientro nel nostro Paese con i genitori. Volontario in Libia, poi mandato sull’ Isonzo allo scoppio della Grande Guerra, nel 1919 torna finalmente a Milano, dopo un anno di prigionia in Austria.
Il diario (edito da Nordpress), piuttosto breve, inizia ripercorrendo l’addestramento del giovane militare. Dapprima viene mandato a Perugia, poi a Napoli; ha modo di apprezzare la maestosità delle città d’arte, ma anche di rimanere colpito dalle aree di degrado. Il testo contiene un riferimento al terribile terremoto di Messina di alcuni anni prima, in cui ci furono ben ottantamila morti. La scrittura è semplice, ordinata, precisa; impegnato in Libia contro i ribelli, si porta nello zaino Thérèse Raquin di Zola che si accinge a leggere per la quinta volta. I ritmi della vita militare nella colonia sono piuttosto lenti; le giornate sono animate dal Ghibli e dalle marce verso le postazioni interne da difendere dagli attacchi nemici. Ma gli scontri con la guerriglia sono poca cosa rispetto al fronte dell’Isonzo in cui Fossati viene mandato nel 1916. A Grado i soldati consumano del “buon pesce fritto”; ma nello stesso giorno, a San Canziano, vedono i segni della guerra, in particolare la chiesa scoperchiata in cui si sono rifugiati i pochi abitanti impauriti. Assalti alla baionetta, il fuoco delle mitragliatrici, bombardieri che dal cielo non danno tregua ai fanti sono il pane quotidiano. Sia da parte italiana che austriaca, gli attacchi sono condotti con la stessa folle temerarietà; le trincee si prendono e si perdono in pochi giorni. Nella zona di Doberdò, teatro di aspri scontri, furono presenti durante la guerra anche Mussolini e D’Annunzio. Lo scoramento davanti ai morti e ai feriti fa comunque apprezzare al giovane l’attitudine alla lotta del soldato italiano: “ … il soldato italiano nel corpo a corpo … è il migliore combattente, forse, perché più emotivo e facilmente eccitabile”. Emerge, larvata, la polemica verso gli imboscati che si trattengono nelle retrovie, lontano dalle trincee.
Nei pressi di San Giovanni di Duino, durante uno sfortunato assalto, nota: “ … molti nostri feriti giacevano vicino a feriti nemici, assistiti da due infermieri austriaci. Una parentesi di umanità nell’infuriare della guerra”. Ancora l’autore parla di azioni volte a prendere Trieste, ma in realtà la guerra resta statica e si continua a morire per conquistare pochi metri. Poi viene il disastro di Caporetto; Felice e il suo reparto ripiegano precipitosamente a Pozzuolo del Friuli dove offrono una dura resistenza al nemico, dopo che un’automobile con alcuni ufficiali è partita precipitosamente. Qui assiste al suicidio di due commilitoni: “ … il comandante la cavalleria e il nostro maggiore … quasi simultaneamente si puntarono la pistola alla tempia”. Fossati e i superstiti, rimasti senza munizioni, si devono arrendere. In Austria la prigionia si accompagna alla fame e alla noia, finché i prigionieri non ottengono il permesso di lavorare in una fattoria, dove Felice si lega a una donna ungherese. La notizia della fine della guerra arriva improvvisa. Si rientra finalmente in Italia e qui vengono inattese amarezze. I vinti di Caporetto sono oggetto di disprezzo e ciò ferisce chi ha fatto il proprio dovere. A Trieste e Pola alcuni civili insultano gli ex-prigionieri. In particolare i soldati devono subire un’umiliante inchiesta: “Evito di parlarne perché questa sorta di processo è il più vergognoso della nostra vita di combattenti”. In seguito a uno screzio con un ufficiale, Fossati viene trasferito in Sardegna.
Finalmente, alcuni mesi dopo, ottiene il congedo e l’11 settembre 1919 (la guerra è finita da quasi un anno) torna nella sua Milano, con ben poca nostalgia per la vita militare.