Sono sconvolta, è per questo che mi sono interrotta.
Mentre ti scrivevo mia suocera è entrata in casa come una furia.
Quella donna e il vetiver che l’accompagna nemmeno salutano più.
È andata di filato nella cabina armadio e poi, al buio, ha attraversato il corridoio per infilarsi nella nostra camera da letto.
Non so perché ma non mi sono neanche fatta vedere. Potevo accendere la tivvù per avvisarla che c’ero, uscire dal bagno di servizio con un asciugamano in testa e l’accappatoio -per evitarle così di fare cazzate- ma alla fine ho preferito seguirla.
Volevo vederla infilare nei cassetti e fra la biancheria intima il suo naso importante e fiero, andare a sbirciare nella mia intimità in cerca di qualche indizio di una relazione extraconiugale o piazzarci dentro bambole perforate da spilli, o qualche Santa cui domandare ogni sera di guarire la mia infertilità.
Un giorno Max me l’aveva anche giurato che non le avrebbe mai dato le chiavi di casa nostra. Il portiere sì, al limite!, aveva detto portandosi la mano sul petto, in piedi sulla poltrona e con lo sguardo da giovane marmotta, a chiunque ma a mia madre mai!, aveva concluso. Poi era saltato giù dalla vecchia Frau di famiglia,–riveritissima dalla madre ma fatta a pezzi dall’incontenibile euforia del figlio- e con la stessa forza vitale che aveva negli occhi mi aveva stretta forte -per limitare almeno un po’ quella felicità vorace?, per non lasciare che si consumasse, nei miei occhi e sotto il suo sguardo, con la stessa velocità con cui era esplosa?-.
Invece, lei stava lì che passava dal comodino all’armadio, presente e viva, e mentre tirava via dalle grucce i miei abiti -per poggiarseli addosso come in una prova frettolosa al mercato o in un negozietto senza camerino - l’ha chiamata Max.
Dopo aver interrotto bruscamente il monologo che parlava del suo bene e di cosa fosse giusto fare “in questa situazione qui”, ha risposto con un sì poco convinto e ha rimesso ogni cosa al suo posto, con calma, carezzando e accostando le stoffe al viso, le camicie di seta tra le mie preferite.
Quale situazione?, avrei dovuto chiederle appoggiata allo stipite con lo sguardo furioso per averla colta sul fatto. Cosa sarebbe giusto fare per lui? E perché?, sarebbe stato sensato domandarle. Oppure sarebbe stato razionale uscire di nascosto per rientrare subito dopo, facendo un po’ di rumore, magari prendendo tempo ad armeggiare un po’ con la chiave nella toppa.
L’avrei salutata con la solita allegria forzata e stridula che riservo solo a lei, e ci saremmo fatte le nostre solite due chiacchiere con un Martini tra le mani –mai più di due e a parecchi metri di distanza l’una dall’altra-.
Lei mi avrebbe parlato dei miei problemi per concludere con il solito “fai come credi” carico di accuse e livore, e alla fine avrebbe guardato, tenendolo a debita distanza, il vecchio Patec Philippe del marito, per dirmi che sarebbe andata a casa a guardare la tivvù.
Invece sono rimasta nascosta tra la porta del salone e il divano, trattenendo il respiro in attesa che uscisse.
Domanderò a Max una spiegazione e poi ti farò sapere.
Ma adesso vorrei tornare al signor Lalama che ho lasciato nel negozio di fotografie che accanto a me guardava forse la pioggia o forse la polvere in vetrina.
La luce livida del temporale faceva da cornice, com’è giusto, a quel siparietto surreale: due che prima di allora non si erano nemmeno intravisti ma pensano che qualcosa li lega o li legherà, che non è mai un caso quando una donna insoddisfatta guarda le labbra di un uomo e ne misura l’intensità del bacio, e che trovarsi da soli, lì, in un negozio dove sicuramente non entrerà nessuno per i prossimi trecentosessanta giorni o forse per l’eternità, è un caso da non sottovalutare.
Ridotti a un cumulo di se e chissà, io e Lalama ce ne stavamo in piedi e immobili.
Non c’era in lui il classico chiasso del dubbio. Non sentivo il tipico rumore del punto di domanda prodotto soprattutto quando è insistente e non aspetta risposta: le piaccio o le piacerò, ho i capelli in disordine oppure no, dico qualcosa o è meglio di no.
Ho ascoltato ancora e mi è parso che in lui ci fossero solo silenzio e calma.
Quando mi ha domandato cosa volessi dal bar, stava tornando al bancone portandosi dietro il suo fare sicuro. Anche Max mi aveva colpito per quello, solo che poi ha cominciato a lasciarlo in banca, a devolverlo ai suoi dipendenti e ai colleghi, ai clienti impauriti da quel distacco così efficace. Ma Lalama era lì, e ha tirato fuori da sotto il bancone un vecchio “rotellone”, uno di quei telefoni grigio topo, che in poche varianti di colore e forma, erano un po’ in tutte le case, anche nella mia, con la cornetta “muta” che mia madre usava per partecipare a certe telefonate commemorative o strettamente confidenziali, o tra noi bambine, quando dopo aver finito i compiti, trascinavamo la prolunga sin nell’armadio e passavamo il tempo in infantili e innocui scherzi telefonici e più tardi in lunghe confidenze amorose.
Gli ho domandato qualcosa di forte e ha ordinato due bourbon on the rocks.
Alle undici e tre quarti del mattino non è da me.
È solo che l’alcol non mi fa più effetto.
Pensare che fino a pochi mesi fa bastava ne bevessi un bicchiere per perdere la testa. E a Max piaceva così tanto quando mi lanciavo sul divano un po’ brilla e ridevo e piangevo per un nonnulla.
Ma basta.
Alla fine non è successo granché. Io e Lalama abbiamo parlato. Lui seduto su quella specie di tavolaccio chiaro e io su una sedia di plastica verde bottiglia ci siamo raccontati delle cose, le solite che ci si dice tra sconosciuti nel tentativo, spesso inutile, di capire al di là delle parole chi abbiamo davanti.
Il suo nome di battesimo è Vincenzo. Vince.
Vince perché un investigatore, Vince perché suona bene in questo mio mondo dove il giallo brilla come sabbia del deserto, i palazzi, dipinti di rosso, sono tramonti riflessi sull’asfalto bagnato mentre il cielo, che non vedo, è sempre dipinto in una stanza. Vince perché è il nome giusto per Lola, quella che se ne sta seduta in un locale fumoso ad aspettare un cliente, la calza smagliata dal tocco insistente di una mano troppo forte.
Le mani, che muove poco, hanno vene scure e sporgenti e stanno per lo più a riposo, ben aperte, sulle cosce che non accavalla mai –come i politici che vedevo in bianco e nero in tivvù, come gli emiri e i giapponesi, come chiunque abbia rispetto per chi gli sta di fronte-.
Quando alzandomi gli ho detto che avevo perso fin troppo tempo, si è offerto di accompagnarmi. Ovunque debba andare signora, mi ha detto con una galanteria tutta naturale e piena d’ironia mostrandomi l’ombrello.
In Commissariato conosce qualcuno.
Nessuno ci ha domandato nulla. Facendomi strada e affacciandosi alle stanze per salutare allegramente e tirando via senza aspettare le risposte, siamo arrivati alla stanza ventitré del primo piano. Ha bussato con una certa deferenza e mi ha poggiato l’indice davanti alla bocca –non stavo parlando-, poi ha preparato il sorriso e curvandosi leggermente in avanti si è infilato nella stanza.
Volevo cercare un bagno ma Vince è uscito dopo un attimo dicendo qualcosa e salutando il suo interlocutore invisibile. Mi ha condotta in una stanza che aveva il minimo indispensabile per sembrare una sala d’aspetto e si è seduto di fronte a me. Esattamente al centro del muro.
Porta calze verde petrolio: le ha lasciate scoperte solo per pochi istanti, mentre sistemava con due dita e per la piega, la stoffa scura dei pantaloni eleganti.