Diaz: Don’t Clean Up This Blood, di Daniele Vicari, Italia, Francia, Romania, 2012, 127 minuti
Il film è attento ai dettagli: anche nella locandina il poliziotto impugna il «tonfa» al contrario
Una sensazione comune al pubblico in sala, durante la proiezione del film, è stata quella di volersi alzare, di non voler continuare a vedere tutta quella violenza. Ma nessuno si è alzato. «Non vi abbiamo fatto il favore di risparmiarvi nulla», ha ammesso poi il regista, Daniele Vicari, perché la verità, quella emersa dagli atti processuali, è troppo grave per essere ignorata.
«Diaz» è un film che ripropone alla società italiana una pagina nera per la sua storia, già segnata negli anni di piombo da una contrapposizione tra polizia («fascista») e manifestanti («estremisti, comunisti, comunque violenti») che nel 2001 ritorna in tutta la sua potenza; forse proprio questa pagina può aiutare la lettura degli scontri tra polizia e manifestanti dell’ultimo decennio.
Un piccolo stralcio – l’irruzione della polizia alla sede del Genoa Social Forum presso la scuola Diaz e la tortura dei detenuti nella caserma/carcere di Bolzaneto – di un G8 di Genova che in quattro giorni ha condensato tanti momenti bui che lasciano interrogativi sullo stato del diritto in Italia. A parlar di Genova infatti non si potrebbe non parlare della zona rossa e delle devastazioni dei black bloc[1], della morte di Carlo Giuliani e degli scontri di via Tolemaide e del lungomare, per citare gli episodi più rilevanti. Daniele Vicari ha invece scelto di concentrarsi sull’episodio più grave per una democrazia, e l’ha fatto proponendo un racconto asciutto, basato esclusivamente sulla verità processuale emersa grazie al difficile lavoro della magistratura genovese.
Precisa la scelta di lasciar fuori dalla narrazione le questioni politiche e sociali: ricordiamo ad esempio la presenza di uomini politici alla sala operativa della Questura di Genova, o le testimonianze di alcuni detenuti che alla Bolzaneto sentirono risuonare Faccetta nera come suoneria del cellulare. Ben poco di questo appare direttamente nel film, evitando il rischio di scivolare nella retorica e nelle polemiche, ma queste componenti non sono assenti dalla pellicola: i comportamenti dei protagonisti parlano per loro, senza bisogno di ulteriori didascalie. L’uso degli atti processuali, spogliati di ogni contestualizzazione politica, evita di distrarre dai valori assoluti di determinate azioni, come le torture alla Bolzaneto. Queste possono così apparire in tutta la loro brutalità, fin troppo simili nel loro clima di terrore ed arbitrio a ciò che immaginiamo per i campi di concentramento in altre epoche.
Il film, con un approccio corale, segue le vicende di più protagonisti dei pestaggi della Diaz, fornendo un ampio e variegato panorama: alcuni black bloc, volontari del Genoa Social Forum, giovani manifestanti tedesche, un vecchio militante della CGIL, un giornalista della Gazzetta di Bologna e giornalisti di Indymedia; pure un malcapitato uomo d’affari francese che ebbe la sventura di pernottare alla Diaz in mancanza di alternative. Questo l’eterogeneo gruppo di persone che dormono, la notte del 21 giugno, nella scuola. Tra loro è possibile identificare alcuni protagonisti reali, come il giornalista Lorenzo Guadagnucci de il Resto del Carlino, che sarà testimone fondamentale del massacro nella scuola, e Mark Covell, il giornalista di Indymedia UK che venne pestato nella strada di fronte alla Diaz, finendo in coma e con un polmone perforato.
Le storie di questi protagonisti si intrecciano, tra le cariche della polizia sul lungomare e le devastazioni dei black bloc, con quelle di numerosi agenti, ufficiali e dirigenti delle forze di polizia e della questura che saranno responsabili dell’operazione nella sede del Genoa Social Forum. Il regista ha qui sapientemente integrato nel film immagini di repertorio che rendono con maggiore immediatezza la dura realtà degli scontri e dei pestaggi. Numerosi poi i riferimenti al variegato atteggiamento dei giornalisti, dai rilanci delle dichiarazioni della polizia, al tentativo di scoprire il movimento dall’interno. Queste storie confluiscono la sera del 21 davanti alla Diaz, descrivendo la pretestuosità dell’intervento di polizia prima, e quindi la brutalità dei pestaggi, la costruzione delle prove false e le surreali conferenze stampa, con i giornalisti che assistono impotenti alle menzogne delle forze dell’ordine. L’incubo non è finito: i fermati (tutti quelli che avevano pernottato nella scuola) in grado di reggersi in piedi sono trasferiti alla Bolzaneto, dove sono sottoposti a nuove violenze, umiliazioni e torture.
Dopo Genova, altre Genova?
Nella scuola dopo i pestaggi
La politica non ha mai voluto assumersi la responsabilità dell’accaduto, né l’onere di far chiarezza sui fatti, magari con la commissione d’inchiesta più volte sollecitata da Amnesty International.
Altri provvedimenti sono stati invano richiesti per evitare il ripetersi di tali abusi: in particolare l’introduzione del reato di tortura (in assenza di tale reato i giudici hanno dovuto ripiegare sull’«abuso d’ufficio», inadatto e con tempi di prescrizione brevi); anche la riconoscibilità dei reparti delle forze dell’ordine tramite segnali identificativi sui caschi, soluzione normale in ogni paese democratico, è tutt’ora una richiesta mai ascoltata.
Proprio quest’ultimo ostacolo, l’impossibile identificazione dei reparti di appartenenza degli agenti, presta il fianco ad un grave problema di omertà all’interno delle stesse forze di polizia: come nota anche Domenico Procacci, produttore del film, lo spirito di corpo degli agenti tende a superare anche il senso dello Stato, col risultato che la collaborazione alle indagini sull’operato degli agenti stessi è stata pressoché assente, non solo per i fatti di Genova ma anche in episodi più recenti.
Come si può quindi pensare in buona fede che episodi tanto gravi non potranno accadere nuovamente? Nulla è stato fatto per impedirlo, anzi i dirigenti di polizia coinvolti dai processi hanno nel frattempo ottenuto tutti promozioni ed avanzamenti di carriera, senza che si ritenesse opportuno ricorrere alla sospensione dal servizio, una volta arrivate le prime sentenze (pur non definitive) di condanna.
Non è infine un mistero che dai membri delle forze politiche all’epoca al governo siano ripetutamente giunti attestati di stima alle varie forze dell’ordine, nonostante le evidenze processuali che man mano emergevano.
La memoria di quegli eventi non è stata condivisa ed oggi è necessario riproporre questi temi non solo a quanti si sono identificati con il movimento No Global, ma ad una società che ha dimenticato – complice la storia successiva – e che ha pigramente assimilato i luoghi comuni sui manifestanti violenti e le forze dell’ordine vittime, proposte finora da molte forze politiche. In questo il regista ha cercato di proporre non un documentario completo ad uso e consumo di quanti già conoscevano, ma un film duro che pone il pubblico – si spera vasto e trasversale – davanti a molti interrogativi.
Questo film, asciutto e per nulla didascalico, rappresenta un’ottima possibilità di rilanciare un dibattito fondamentale su cosa è accaduto a Genova e su come le istituzioni si siano rifiutate di render conto delle loro responsabilità. Soprattutto ora che gli ultimi processi si stanno chiudendo, rischiando di consegnare definitivamente all’oblio i fatti di Genova.
Note (↵ returns to text)- Questa recensione cade nell’ambiguità presente in Italia circa il termine «black bloc», qui riferito alle persone fisiche – secondo il significato prevalente in italiano – e non alla tattica adottata nelle manifestazioni; è interessante notare come il giornalismo italiano, mostrando quantomeno superficialità, abbia generalmente mantenuto e alimentato quest’ambiguità.↵
Bolzaneto, Daniele Vicari, Diaz, Domenico Procacci, G8, Genova, Polizia, tortura Cinema