L’urlo terrorizzato di Ebenezer interrompe la visione, ma solo per introdurre il secondo degli Spiriti: quello del Natale Presente, che mostra al vecchio come il resto del mondo sta trascorrendo la Vigilia. C’è chi è costretto a lavorare in miniera, ma trova il tempo di intonare un canto natalizio attorno al fuoco, c’è chi condivide la solitudine di un faro, come i due guardiani che si scambiano gli auguri con un brindisi, c’è chi è imbarcato, circondato dall’oceano, lontano da casa chilometri, e dedica un pensiero alla propria famiglia. C’è Bob Cratchit, l’umile impiegato sfruttato da Scrooge, che trascorre un Natale sereno con la sua famiglia nonostante la malattia del piccolo Tim e la profonda miseria della sua casa, e infine c’è suo nipote Fred, che, a tavola con i suoi cari, rivolge un pensiero beffardo allo zio che detesta il Natale. L’ultimo spettro, quello del Natale Futuro, è il più orribile, una silenziosa e imponente figura ammantata che indica a Scrooge ciò che succederà alla sua morte: non avendo famiglia né amici, il denaro e i beni accumulati saranno razziati e spartiti fra estranei, nessuno piangerà la sua morte e anzi la sua intera esistenza sarà derisa da tutti. Scrooge si risveglia la mattina di Natale, cambiato come se fossero trascorsi mille anni: da taccagno, arido e misantropo, si trasforma in un uomo gentile e generoso e riesce così a salvare la propria anima. In questo brevissimo racconto c’è gran parte del suggestivo e concreto mondo di Charles Dickens, a metà strada fra finzione gotica e l’avventura picaresca, senza trascurare la profonda analisi delle tematiche sociali del tempo: lo sfruttamento, il capitalismo sfrenato, la povertà.
Lo scrittore anglosassone è stato capace di erigere e mitizzare, su un palcoscenico apparentemente angusto, il personaggio del Misantropo e del Taccagno per eccellenza; una figura che ha ispirato decine e decine di rifacimenti (famoso il cortometraggio della Disney del 1983 con protagonista Topolino e Zio Paperone, versione “fumettistica” dello Scrooge dickensiano), facendo leva non soltanto su quelli che banalmente si potrebbero classificare come “buoni sentimenti” ma su un impulso più profondo, sul senso stesso di “umanità”, che scatena un sentimento ben diverso dalla semplice commozione. Una storia commovente possono scriverla in molti, una che tocchi e faccia a lungo vibrare le corde più profonde dell’animo è capacità del grande narratore, ma una storia che abbia per protagonista l’Umanità e le sue paure, che abbracci il Sentimento Universale, la globalità dell’universo emozionale, è riservata soltanto al genio. Nel “Canto di Natale” accade questo. Non è la storia di un taccagno che si ravvede dopo aver conosciuto la miseria, né un racconto fantastico di spettri, se così fosse, finita la lettura, nessuno proverebbe turbamento. Ciò che Charles Dickens impietosamente mostra, non solo all’arido Scrooge, ma a tutti i suoi lettori, è quello che nessun uomo potrebbe sostenere: osservare con nuova chiarezza, ma senza poter reagire, gli errori passati ormai irreparabili, conoscere le spietate opinioni degli altri sulla propria persona, senza il filtro artificioso del buon senso, osservare la propria lapide dimenticata e, la cosa più terribile, prendere coscienza dell’indifferenza e del giudizio dei vivi di fronte alla tragedia più grande, la propria morte.
Dickens realizza i tre inconsci (e più temuti) desideri dell’Uomo: rivivere il proprio passato, sapere ciò che si dice davvero di noi, vedere come il mondo reagisce alla nostra morte. È in questi tre elementi che risiede la potenza dirompente del racconto di Natale che, lungi dall’essere un semplice “canto natalizio”, può essere meglio definito come un “canto universale”, il racconto di segrete angosce assolute, e che come tale non solo commuove, non solo tocca le corde più profonde dell’animo umano, ma soprattutto, parlando un linguaggio fatto di atavica empatia, porta il lettore a una compenetrazione completa, a parteggiare caldamente per il vecchio Scrooge, perché nel vecchio Scrooge c’è ogni uomo. Scrooge cambia e diventa “buono” (in realtà riscopre soltanto il suo lato “umano”), ma il passaggio dall’uno all’altro stato si compie vivendo l’orrore del passato, del presente e del futuro. La certezza del dolore, che passa da sensazione interna a immagine esterna, sollecita il cambiamento, per questa ragione Scrooge deve necessariamente attraversare l’inferno (dantesco) del proprio io prima di potersi salvare e così facendo traccia la strada, lasciando a noi, con il “Canto di Natale”, la possibilità di salvarci, prima che i nostri spettri vengano a trovarci.