Die Hard (1988)

Creato il 23 novembre 2011 da Elgraeco @HellGraeco

Avrei dovuto intitolare il post Trappola di Cristallo, ovvero il titolo italiano. Ma non importa. Così come non importa si tratti di un film che avete visto almeno venti volte e non una prima visione.
Io ho scoperto quanto ci sono affezionato, a Die Hard, solo da poco. M’è sempre piaciuto, questo è sicuro. Ma Bruce Willis, col suo fisico che non è mai stato ipermuscolare, come quello di Sly e Schwarzy, ecco, era un po’ il parente povero, nella mia mente di ragazzino. Poi c’era il fatto che se andava in giro scalzo, e si feriva di brutto, con schegge di cinque centimetri conficcate nelle piante dei piedi, che solo a guardarle ti fanno venire un male cane. Era invulnerabile, è vero, ma a modo suo. Di botte ne prendeva.
Io, a quasi trentacinque anni, passata la fase dei muscoli, Bruce e il Nakatomi, e la moglie e Hans, e il giornalista ficcanaso, e il poliziotto preso da una sitcom (Reginald VelJohnson) che compra ciambelle e guida alla Stevie Wonder, be’… li trovo uno spettacolo grandioso.
Arriva per caso, quest’articolo su Die Hard, come per caso, ricordo, lo vidi in tv, prima visione in prima serata (all’epoca la prima serata erano le 20.30), e fu amore a prima vista per il grattacielo, quartier generale della Fox, infatti è il Fox Plaza, prestato da Murdoch (proprio lui) a McTiernan perché lo “demolisse” a dovere. Nella mano di Rupert, un assegno da cinque milioni di dollari per Bruce Willis, sesta scelta per il ruolo del poliziotto John McClane, dopo i soliti noti e persino qualche sorpresa, tipo Tom Berenger e Richard Dean Anderson (McGyver). Ok, immaginatevi McGyver che striscia nel circuito d’aerazione del Nakatomi e ditemi che effetto vi fa. E non solo lui, anche Zio Arnold.
Inutile, c’è Bruce nella vostra mente. Come nella mia. Certi ruoli ti si cuciono addosso.

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E in particolare, John McClane, oltre che scalzo, perché i terroristi/ladri fanno irruzione mentre lui se ne sta alla toilette a stringere a pugno le dita dei piedi, per combattere lo stress del viaggio in aereo da NY a LA, ce lo ricordiamo in canotta lurida e sempre più sporco di sangue; che vola da un piano all’altro attaccato a un idrante e fa di quei salti nel vuoto che pare di doverci cadere, tanto sono reali.
Vigilia di Natale, Holly Gennaro, donna in carriera presso la Nakatomi, ha invitato il marito John a raggiungerla a Los Angeles, per recuperare il loro matrimonio. E lui arriva con un orsetto di peluche, regalo per le figlie.
“Insomma, lei ha pensato: mia moglie non sfonderà e tornerà strisciando a casa, quindi, perché scomodarsi?”. La filosofia di McClane, poliziotto, rubando le parole da Danko, specialista in incasinamenti. L’uomo giusto.
Per una volta, i cattivi, i terroristi, sono tedeschi, europei. Non sovietici, ma biondi e teutonici. Non fosse passato tanto tempo… ma ricordiamo che, all’epoca del film, di anni ne erano trascorsi ancora una quarantina. E i tedeschi cattivi ci stavano ancora alla grande, tanto che in Germania vennero inglesizzati i nomi, facendoli passare come terroristi inglesi: Jack Gruber è Hans, uno dei cattivi degli anni Ottanta che giganteggia per classe, eleganza nel vestire e spietatezza. Quando fa saltare la testa al vecchio Takagi, leader della Nakatomi, non solo non te l’aspetti, ma ci godi, perché è subito chiaro che sei finito in un film di classe, quell’action dei maestri, poco pensiero e tanto movimento, fino allo sfinimento. Con grandissimo gusto e nessuna pretesa di moralizzazione. Una delle tante coscienze che abbiamo perduto in quest’epoca ipocrita.

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Alan Rickman, il cattivo europeo, abbiamo detto. Che disprezza il modo di fare del cowboy McClane, ma che apprezza tantissimo i soldi nel caveau del Nakatomi. Per seicentoquarantuno milioni di dollari, tanto vale fare una strage, passare per morti e goderserla in qualche paradiso tropicale.
Set unico, il grattacielo. Fatto esplodere per finta, ovviamente, tramite l’ausilio di modellini, ma… anche per davvero, simulando i lampi delle esplosioni al primo piano, quando John fa cadere la bomba nel vano ascensore, con l’impiego di decine di flash di decine di telecamere, all’epoca tra i più potenti disponibili sul mercato. D’altronde, per questo film, che McTiernan non voleva girare, si giocava proprio in casa della Fox; i mezzi tecnici non erano un problema.
Curiosità, Schwarzenegger fu la prima scelta per John McClane. Perché Die Hard, che poi divenne il capostipite del ciclo omonimo, doveva essere il sequel di Commando. Tutt’altra azione, per tutt’altro humour. Ci sarebbe piaciuto lo stesso, credo, ma staremmo qui a discuterne in maniera molto diversa.
In fondo, il vecchio Bruce, un po’ stempiato e in canotta, sofferente per le ferite, ma inarrendevole, è un’immagine che colpisce, diventa empatica, fa ridere quando dà a Hans del coglione, perché confonde John Wayne con Gary Cooper (Yippee-ki-yay, pezzo di merda!). Schwarzenegger non è mai stato un cowboy, Bruce, che iniziò la sua carriera entrando in scena mentre Sinatra ne usciva, poteva permettersi di esserlo persino senza cappello. Non fosse per il piccolo dettaglio che lui, al posto del berretto, aveva un’arma automatica (a machine gun), HO HO HO.

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Ok, alla trentesima visione, forse di più, con la musica di chiusura fissa in testa, è proprio il caso di dire che il film lo si può recitare a memoria, senza bisogno di copione, anticipandone stati d’animo, espressioni, battute. Amando tutti i personaggi, a cominciare da quel coglione di Harry (Hart Bochner), barbuto e cocainomane, che vuole trattare con Gruber. Altra comparsa, per un personaggio al quale vengono affidate poche scene e ancor meno battute. Eh, ma intanto ce lo ricordiamo ancora mentre spazza via la coca con un gesto frettoloso della mano dalla scrivania, mentre ci prova con Holly, mentre suda freddo, perché Hans ha caricato la sua pistola, la stessa con cui ha fatto saltare la testa a Takagi.
Oggi abbiamo Drive, ed è un bene. Ma è solo un piccolo miraggio. Qua stiamo parlando di stato dell’arte. A cominciare dal doppiaggio italiano. Ve lo ricordate, almeno, il doppiaggio italiano? Cioè, diciamocelo, noi i nostri beniamini li abbiamo conosciuti che parlavano italiano, con voci che, a sentirle ancora adesso, le riconosciamo subito.
Ecco perché poi, ti prende la nostalgia, quando lo riguardi per l’ennesima volta, Die Hard, fresco e avvincente come fosse la prima, e stai lì a chiederti cosa ne è stato di questi professionisti che bastava inarcassero un sopracciglio o facessero l’occhiolino, e stiamo qui ancora a decantarne le lodi.
Per chiudere, un aneddoto, tra i tantissimi, del backstage: Alan Rickman che cade, nel finale. Immagine vivida, al rallentatore, una volta tanto benedetto rallentatore. Sembra vera. In realtà, l’attore fu fatto cadere da una decina di metri d’altezza, in studio, al riparo e assicurato da funi. Lo stuntman che lo sorreggeva e doveva mollarlo rilasciò la corda al due, anziché al tre, come concordato; ecco spiegata la faccia sorpresa e convincente di Hans. Quale deve essere quella di uno, arreso, che capisce che sta per sfracellarsi al suolo.
La sorpresa. Quella che manca al cinema, oggi.

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