Come uomo voglio differenziarmi dai facili moralisti che lo accusano di aver distrutto il bello di una carriera splendida e aver rovinato chi gli stava intorno e chi credeva (soprattutto i giovani) in lui con il suo cattivo esempio. Ritengo, invece, la sua storia umana oltre che curiosa e sorprendente un esempio significativo per chi vuol comprendere le ragioni di una esistenza che dalla povertà arriva ad essere una delle più fastose. Già, Diego Armando Maradona nasce povero alla periferia di Buenos Aires il 30 ottobre del 1960 e per tutta la sua esistenza non perde mai di vista il dramma della povertà; quando il 29 giugno del 1986 Ferlaino (all’epoca presidente/patron del Napoli) sorprende il mondo annunciando l’acquisto di Maradona dal Barcellona la prima dichiarazione di Diego davanti ai 40 mila che lo applaudono alla presentazione al San Paolo fu “Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di questa città, perché sono come ero io quando vivevo a Buenos Aires”. E la capacità di Maradona di diventare il migliore di sempre deriva proprio da quella fame che la povertà produce, a 15 anni già proclamava “Ho due sogni: il primo è giocare la coppa del mondo; il secondo vincerla”. La vincerà la Coppa del Mondo e la vincerà da solo il 29 giugno 1986 con un 3 – 2 contro la Germania, pur non segnando è lui che trascina la squadra alla vittoria finale. Così come cerca di fare durante Italia ’90 altro mondiale che l’Argentina perde in finale contro la stessa Germania per un rigore inesistente. Tra i pianti di rabbia e i fischi degli italiani che assistono all’incontro Maradona se la prende con Blatter affermando “Ha vinto la Mafia”. Quell’Italia ’90 sarà ricordato però per la semifinale tra Italia e Argentina che si gioca al San Paolo, la “casa” di Maradona che ancora una volta non perde l’occasione per far sapere al mondo, agli ultimi di che pasta è fatto. Prima della partita “carica” i suoi scugnizzi con un lapidario “Gli italiani vi chiamano terroni per 364 giorni all’anno e ora vogliono il vostro tifo”. E Napoli risponde a metà divisa tra cuore e ragione; già perché Maradona a Napoli ha dato tutto portando in dote due scudetti, il primo della storia calcistica partenopea il 10 maggio 1987 e il secondo il 29 aprile 1990 facendo impazzire i napoletani che scrivono persino davanti al cancello del cimitero “che ve siete persi…”.
E’ questa la soria umana di Diego Armando Maradona che inevitabilmente si mescola alla storia calcistica, una storia fatta di sacrificio per evadere dalla povertà e dimostrare al mondo che si può diventare il migliore anche provenendo dalla più infima delle periferie. Il dopo in una sorte di “continuum” è fatto di incontri con Fidel Castro (un altro che il mondo fa fatica a riconoscere), di amicizia con Chavez e ammirazione per Ahmadinejad il tutto semplificato dal tatuaggio del Che che ne dimostra l’appartenenza, tanto che incoronando Lionel Messi a suo successore spiega “Vederlo giocare è meglio che fare sesso. Pensate che trio: io, Messi e Che Guevara”.
“Maradona è stato un cumulo di eccessi e chissà ancora per quanto tempo lo sarà. Teatrale, grottesco, contradditorio, discutibile anche quando è immobile” ma per il suo cinquantesimo compleanno faccio mio l’augurio che gli intellettuali e i professionisti gli hanno tributato come colui che “seppe interpretare il genio individualista che c’è dentro di noi”.