La dieta a punti fece il suo ingresso ufficiale nelle strategie alimentari per perdere peso negli anni ’70. Erano gli anni in cui l’estremizzazione della bellezza femminile verso canoni filiformi aveva raggiunto il suo acme con Twiggy, la modella inglese quasi anoressica che diventò un’icona da seguire. E fu proprio in quegli anni che al dietologo Guido Razzolo lanciò sul mercato una dieta basata su un principio innovativo e notevolmente diverso da quello dei consueti regimi a basse calorie: il menù dimagrante doveva sottostare a un vincolo numerico stabilito in conformità a peso, altezza, età e sesso della persona intenzionata a dimagrire.
Questo regime alimentare fu battezzato “dieta a punti” e da allora continua a essere riproposto da riviste specializzate e molto seguito da vip e non solo. A cosa deve il suo successo? Intanto non costringe a rinunce alimentari di nessun tipo. Infatti, in base ai parametri personali accennati, si assegna a chi intende seguire questa dieta un credito di punti da spendere nell’arco di una giornata e, al contempo, a ogni alimento si conferisce un valore numerico. Da qui deriva appunto il nome dieta a punti. Alle verdure, per esempio, è assegnato un credito pari a zero; a 100 grammi di mela 13 punti; a 100 grammi di petto di pollo 27 punti, e così via. Se a una persona è assegnato un credito giornaliero da spendere calcolato intorno ai quaranta punti, questa non deve fare altro che attenersi alla tabella alimentare di riferimento e farsi due conti.
Ovviamente tanto più è calorico il cibo, tanto più elevato è il suo punteggio. Una fetta di torta al cioccolato potrebbe valere da sola per oltre i quaranta punti giornalieri da spendere. I più golosi sono liberi di scegliere di alimentarsi anche solo con il dolce. Va da sé, però, che quest’ultima scelta andrebbe a discapito di una dieta equilibrata e, quindi, salutare. Il consiglio, perciò, quando si cambia regime alimentare è sempre lo stesso: usare il buon senso e, soprattutto, farsi seguire da un buon medico dietologo.