Non arroganza dimorava
nel tono alterato della voce,
ma frustrante delirio d’impotenza
di chi non seppe mai dar nome casa
alle mura che ne protessero
la crescita, né mai dar nome patria
alla terra che prima accolse
la sua ombra, la stessa che ora
guida il passo verso lo sfumato
asilo del regno indecifrabile.
Non vanità, ma sete insoddisfatta
di giustizia, ad inesorabile arsura
consapevolmente condannata,
gonfiò a sproloquio le parole
e dilatò la pelle a maschera
tantalica, resa ridicola
dalla noiosa prassi della scena.
Chi fece orecchie da mercante
al suo dolente petulare,
in visitazione i versi sentirà
bussare all’uscio del giusto
sonno, dopo la grazia dello schianto
o il volontario arbitrio della corda.
Dietro la ruvida scorza
una ferita stava in vana attesa
d’essere convertita in tenerezza.