Difendere il libro nazionale!

Da Ugobarbara
Fino a qualche anno fa, prima che l’incresciosa parcellizzazione della proprietà delle sale cinematografiche fosse risolta con uno sano duopolio che ha ridotto di fatto a due i protagonisti della distribuzione, in Italia capitava ancora di dibattere su un tema un po’ peregrino: la protezione del prodotto cinematografico nazionale.
Oggi quel dibattito si è spento: nessuno pensa più di fare come i francesi – di imporre cioè una quota di produzione nazionale a ogni distributore – e si può allegramente riservare al cinema italiano una porzione di sale nelle quali però trova spazio solo e soltanto la commedia. O il film adolescenziale. O qualunque cosa il volubile e lunatico mercato decida che va bene in quel momento. Ho maturato il sospetto che una realtà in crisi finisce per diventare bulimica.
L’esempio del cinema è calzante: la crisi delle sale crea un ingolfamento intorno a una manciata di titoli, così alcune emerite boiate vengono distribuite in 6-700 copie perché nessuno (ma proprio nessuno) possa dire: “non sono riuscito a vederlo perché nella multisala vicino a casa non lo proiettavano”. E torniamo così al monopolio dei pochi: titoli e distributori. Nelle librerie succede l’opposto, almeno per quanto riguarda i titoli.
Mi sono sempre battuto e sempre mi batterò per le librerie indipendenti perché solo un libraio vero, di quelli che leggono i libri che vendono, può consigliare al lettore giusto il libro giusto. Attenzione: ho detto lettore e non cliente, perché il rapporto tra chi vende un libro e chi lo legge non potrà mai essere simile a quello di chi vende una fetta di mortadella e chi se la mangia.
E invece oggi quando si entra in un negozio delle grandi catene, è come entrare in un ipermercato di Long Island: file su file su file di prodotti (qui sì non più libri, ma prodotti) che disorientano il lettore che non sia entrato con un’idea già ben definita. E a ben guardare si scopre che una schiacciante maggioranza di questi titoli sono stranieri. C’è di tutto – non soltanto statunitensi come piacerebbe credere ad alcuni apocalittici – ma francesi, britannici, neozelandesi, africani...
Un lettore è indotto a pensare che se un editore lo ha pubblicato è perché ci crede davvero. Perché quel titolo lo ha tenuto d’occhio a lungo, meditato, valutato. Ha cercato il traduttore adatto e ne ha curato il lavoro; ha contatti stretti con l’autore e con i suoi agenti, li informa dell’andamento delle vendite, li coinvolge nel lancio per far conoscere al lettore italiano un autore senegalese (o gallese o irlandese o islandese) semisconosciuto in patria.
Nulla di tutto questo, almeno quasi mai. Nella maggior parte dei casi i titoli vengono acquistati alle fiere internazionali con le stesse dinamiche con cui una fabbrica di indumenti (non voglio dire un’azienda di moda) acquisterebbe stoffe dai rappresentanti dei produttori locali. Quanto volete che costi un titolo così? E’ un affare quasi mai in perdita, perché il romanzo islandese viene acquistato insieme a quello senegalese e a quello gallese a una cifra spesso irrisoria, viene stampato e lanciato sul mercato nel giro di sei mesi. Nulla a che vedere con il faticoso lavoro di preparazione e lancio di un autore italiano che deve essere innanzitutto pagato in maniera adeguata (o quantomeno onesta), che ha bisogno di un editor che lo segua nelle fasi della scrittura (altro costo) e che poi non mancherà di lamentarsi della distribuzione, dell’ufficio stampa, della promozione, inseguirà attimi di vanagloria in tv e sognerà il divano di ‘Parla con me’.
Tutte spese, fatica, impegno che lo scrittore senegalese e quello statunitense non richiedono. Per l’autore americano che in patria ha venduto qualche centinaio di migliaio di copie , pubblicare in Italia è come per Paolo Giordano essere tradotto in urdu: un dettaglio in una storia di grande successo, ma nulla di più. Per un autore senegalese arrivare nelle librerie italiane è solo una tappa nella conquista di mercati molto più succulenti, come quello tedesco, francese o americano.
Scommettere su un titolo straniero, insomma, è molto più semplice e a buon mercato. In caso di fallimento si ammortizzano i costi con grande facilità e in caso di successo si guadagna in modo esponenziale e si conquista un posto nel paradiso dei talent-scout.
E nella marea di autori internazionali da una botta e via (di quelli che non torneranno mai più sugli scaffali delle Feltrinelli e delle Mondadori perché non hanno superato le cinquecento copie di venduto), gli italiani soffocano e scompaiono, si contendono le attenzioni degli uffici stampa e dei giornali e quella un po’ provinciale di pagine culturali sempre più attente a quello che succede ovunque tranne che in casa.
Non ci sono colpe per questo fenomeno. Né colpevoli. “E’ la globalizzazione, bellezza” mi ha detto una volta un imprenditore italiano che ha delocalizzato in Cina la produzione di tute da sci. E l‘unica cosa che gli autori italiani possono fare è raccogliere la sfida e fare meglio degli altri, perché solo puntando sulla qualità si riesce a riconquistare una fetta di mercato che altrimenti è destinata a essere sempre più parcellizzata e sbriciolata. Una partita difficile, da giocare libreria per libreria. A condizione, però, che le case editrici non restino a bordo-campo a sorseggiare caffè Borghetti, aspettando di vedere come va a finire.

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