Digressioni #4 | Annotazioni su Winter Sleep (Il regno d'inverno)

Creato il 17 ottobre 2014 da Frankviso
Nuri Bilge Ceylan
Turchia, Germania, Francia, 2014
196 minuti
Antefatto: a dire il vero non era mia intenzione scrivere su Winter Sleep, ultimo film di Nuri Bilge Ceylan, vincitore della palma d'oro a Cannes. E in effetti, quella che segue non intende essere una recensione, ma solo una manciata di appunti nati come commento di risposta a una vera, recensione; quella scritta qui da Caden Cotard del blog Il Buio in Sala, che alcuni giorni fa passò da queste parti proponendomi la visione di un film che, una volta tanto, potesse offrirci l'occasione per un piacevole scambio di opinioni. A Caden il film è piaciuto (al sottoscritto decisamente meno) e da lui ho appena condiviso queste prime impressioni:

mi sentirei di riversare in questo spazio altrettanti fiumi di parole di quanti ne scorrono nel film. Innanzitutto per complimentarmi con te per la splendida recensione, che è palesemente sentita, scritta con la stessa emozione che inevitabilmente si instaura dopo la visione di un film che senti d'aver colto in profondità, facendolo quasi "tuo" e che proprio sotto l'aspetto diciamo, umanistico della vicenda, non può che trovarmi d'accordo. Ma non solo: pure io ho trovato magnifico quel minuto di silenzio dopo la lite (senza dubbio tra i momenti che ho sentito maggiormente, "miei") e allo stesso modo, cinematograficamente, di una potenza poche volte raggiunta, è verissimo, le sequenze con i cavalli (specialmente quella del fiume). Tuttavia non basta, perchè gli stessi fiumi di parole andrebbero a loro volta spesi per cercare di spiegarti il perchè, in definitiva, Winter Sleep non mi ha pervaso delle tue stesse emozioni.
E qui sotto le motivazioni, la risposta vera e propria, spero per Caden, il più esaustiva possibile:
mettendo quindi in disparte l'aspetto più scenografico, un'ambientazione dalla quale presumo sia quasi impossibile non ricavarne qualcosa di ammaliante (ovviamente risiede nella bravura del regista a coglierlo, ma è il paesaggio della nazione stessa, che cinematograficamente si presta in maniera eccezionale, posso garantirtelo sulla consistente dose di film provenienti dalla Turchia visti finora, su tutti, quelli di Reha Erdem - annotatelo questo regista), il motivo principale è che non c'è un movente interessante al proliferarsi di tutta questa verbosità, di questi dialoghi serrati che, bada bene, non è che non apprezzi, ma tendono ad annoiarmi (se non a infastidirmi) quando vengono formulati senza che coesista alla base il fondamento per l'emergere di una situazione specifica o particolare, un determinato evento insito alla vicenda che con il procedere del film possa coinvolgerti (o perlomeno, che ti induca a pensare in un suo probabile sviluppo), anche senza poi giungere a nessuna conclusione effettiva, in fin dei conti (classici finali aperti, ma proprio per questo, da te maggiormente interpretabili), ma che comunque introduca e faccia accrescere quella sensazione di attesa che nell'opera di Ceylan, io non ho percepito. Per farti meglio comprendere ti riporto alla memoria due film (sulla stessa linea di fruibilità, forse anche di più) che credo esprimano chiaramente ciò che intendo: 4 mesi, 3 Settimane e 2 Giorni di Mungiu e Una Separazione di Farhadi. Anch'essi pregni di una verbosità straripante senza quasi mai un attimo di sosta, di silenzio, ma allo stesso modo sorretti da due vicende che ti coinvolgono fin da subito (l'aborto clandestino - il divorzio/l'accusa) offrendoti l'opportunità di formulare più liberamente e in modo più ampio il tuo, di pensiero. Cosa che qui non accade per il semplice fatto che non ci discostiamo quasi per niente da quell'autorialità più classica dove tutto è già formulato; non c'è malleabilità (e la prevalenza di questi interni angusti, a suo modo potrebbe anche rappresentarlo), manca lo spazio necessario per interiorizzare al meglio, per sviluppare un'interpretazione totalmente soggettiva come accade, ad esempio, nel cinema d'autore più contemplativo, il cui "vuoto/silenzio", paradossalmente, riesce al contrario a colmarti d'infinite riflessioni. E scrivi giusto quando fai riferimento al teatro: perchè Winter Sleep è, fondamentalmente, teatro cinematografato e anche per questo, forma già di per sè cinta nelle maglie del convenzionale. E' come un testo scritto del quale però sai già di conoscere a memoria tutte le battute; una valanga di considerazioni sulla vita, sui rapporti umani (sul mondo, come ha colto argutamente Ismaele - markx7 qui), che ti sommergono per più di tre ore per ricondurre infine il tutto, però, al punto di partenza, al "nulla" che citi in testa alla tua recensione. Ma è un "nulla" totalmente diverso da quello che riusciva a raccontare, per esempio, un Antonioni (giusto per citare uno dei due autori al quale il film di Ceylan è stato erroneamente accostato - l'altro è Bergman, ma il tratteggio psicologico nei suoi film è anche più complesso) con la sua, d'incomunicabilità. Tanto che non c'è neve che possa scendere, e non c'è gelo più intenso di quella "assenza esistenziale" che suggella l'indimenticabile epilogo de L'eclisse.  
Sia chiaro, che con tali affermazioni non nego assolutamente l'importanza che tale film possa avere (anzi, per molti sarà un grande insegnamento di vita, Winter Sleep) e come accenato all'inizio, è umanamente lodevole. Semplicemente, a mio modesto parere, c'è ben poco da esperire dal profilo più prettamente artistico e quindi, dal cinema come lo intendo, e come lo vivo io.



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