Per la rassegna “Festa Mobile”, uno spaccato di realtà per noi così evidente che spesso cade paradossalmente in una banale indifferenza, dettata dall’abitudine o da un distaccato disinteresse. Il regista Peter Marcias con Dimmi che destino avrò ci offre al Torino Film Festival «una storia che fa riferimento a situazioni care, come la diversità, l’integrazione, il dramma sociale, affrontate con un tocco di realismo magico». La macchina da presa che si muove per i campi rom della Sardegna ci dà la possibilità di usufruire di un punto di vista diverso dal comune; l’insistenza su ogni angolo di quel piccolo mondo tirato su dal nulla è un più lirico documentario di stili di vita inimmaginabili, paradossalmente ricchi nella loro miseria, ricchi di usanze e di abilità nell’arte dell’arrangiarsi. A guidarci nell’esplorazione sono gli emblemi di due condizioni esistenziali nettamente distinte: il saldo radicamento del commissario Esposito (Salvatore Cantalupo, attore napoletano già conosciuto in Gomorra), ligio al dovere, anche se inizialmente diffidente rispetto alla missione che gli viene affidata, e l’erranza incerta di Alina (l’attrice albanese Luli Bitri), complessa personalità scissa tra la forza di volontà e una sconfortata debolezza. Una denuncia di sequestro dà l’avvio a un’inchiesta che si conclude in fretta, per lasciare il posto a un’incuriosita immersione-regressione nel mistero di un campione d’umanità variegato e sfuggente. Il diretto contatto con le comunità rom dei campi di Monserrato e di Selargius ha dato vita a una suggestiva serie di sequenze che non hanno nulla di finto o macchinoso: il percorso che gli operatori hanno compiuto durante le riprese è analogo a quello del commissario, è un lento maturare di una nuova consapevolezza, è la conoscenza di un qualcosa di cui s’ignorava l’esistenza. Ecco perché l’insistenza sulle pozzanghere in cui zampettano le galline, sulle lavatrici arrugginite tenute all’aria aperta, su delle mani che con estrema abilità lavorano pezzi di ferro, ma, soprattutto, sui volti. Volti perfetti nella loro palese imperfezione, che Esposito studia prima vestendo con costanza i panni del commissario, poi lasciandosi andare a una più umana empatia, spinto da un’istintiva e quasi pasoliniana attrazione verso una miseria degradata.
Sono tante le tematiche che Gianni Loy ha arditamente inserito nella sceneggiatura; primo fra tutti, il grande problema dell’integrazione di una minoranza etnica, che si ripercuote poi sull’irrisolta questione dei diritti di cittadinanza ai bambini rom nati in Italia. Ed è Alina a portare con sé il disagio causato da tale mancato riconoscimento, avvolgendoselo intorno al corpo come quella sciarpa turchese, sempre la stessa, mentre si sposta tra Parigi e la Sardegna restando sola con se stessa; il suo è un piccolo universo a sé stante, separato dal resto del grande mondo che costantemente sembra avvicinarsi a lei per poi ritrarsi poco dopo – e lo dimostra il commissario, quando, vedendola tutta agghindata con coloratissimi abiti folklorici, non se la sente di entrare nel ristorante in cui si sono dati appuntamento. Ma l’incontro tra i due non è mai un’occasione di distacco dai rispettivi retroscena privati; anche il commissario Esposito convive con una delicata situazione, forse più mascherata nella sua sofferenza, ma comunque drammatica: ecco l’altro grande tarlo che rosicchia l’apparente linearità di una detective story, quel figlio omosessuale, altra grande minoranza difficilmente accettata, che di sera si trucca e si traveste per lavorare in un locale. La domanda, allora, sorge spontanea: qual è il vero metro di giudizio per definire la diversità, sempre ammesso che ne esista uno?
Opera coraggiosa, che persegue comunque la scelta di svilupparsi secondo moderati parametri dettati da intelligenza e spirito d’osservazione, senza quindi ricorrere a esilaranti colpi di scena che deformerebbero l’intento documentaristico in macchinoso sovversivismo. Un azzardo si può riscontrare nel forzato intreccio tra le vite dei protagonisti, fortunatamente reciso prima di un improbabile innamoramento. Scena già vista, ma pur sempre efficace, quella dell’amichevole avvicinamento tra il commissario e i bambini rom grazie a un infallibile pallone da calcio: molti ripetutamente bocciati, altri imbarazzati nel rivelare il nome della loro fidanzatina, diventano tutti uguali nella gioia condivisa del gioco, quel gioco che invano Esposito aveva cercato di far amare tanto alla moglie quanto al figlio.
In copertina Luli Bitri e Salvatore Cantalupo in una scena del film