L’occidente ha un rapporto molto controverso con la morte, e oggi più che mai. Che sia la propria o la morte dell’altro, questo, che è un evento certo e naturale, viene considerato forse il più inaccettabile e “osceno” dalla nostra cultura. L’occidente non accetta la morte. A parte le morti violente (per incidente o altro), il trapasso è confinato negli ospedali e lasciato alle cure dei “tecnici”. La nostra, che è una delle società più violente, sanguinarie e prive di compassione, generatrice di morte, non vuole guardare in faccia la morte. Dunque anche il lutto diviene spesso una patologia da guarire. Perché quelle forme e quei riti codificati che nel corso della storia e delle culture hanno accompagnato il trapasso, che rendevano possibile sanare e ricomporre, quantomeno a livello sociale, ma anche individuale e psicologico, lo strappo operato dalla morte, non sussistono più qui da noi. E questa è una grande perdita. Si potrebbe dire che l’occidente è in lutto per la perdita del lutto. E questo ha lasciato un vuoto che si tenta di riempire con l’ossessiva celebrazione dell’eterna giovinezza, dell’eterna efficienza, dell’eterna sopravvivenza a qualunque costo. Ma ovviamente invano. E questo è il tragico abbaglio dell’occidente. L’aver relegato la morte nel sottoscala, come un parente di cui ci si vergogna. Non è una questione di religione o di fede, ma di perdita profonda del Sé. La morte, che è parte integrante della vita, come lo è la nascita, è temuta, relegata ai margini, rimossa. Ma questo accade perché si è tolto alla vita il suo senso profondo e il suo valore.
Poiché la morte è un regno sconosciuto, ben più dell’universo, che si può comunque esplorare e scoprire con la tecnologia, è in fondo una dimensione irrazionale. Cioè, la razionalità a nulla serve e, poiché l’occidente, col trionfo della sua scienza razionale, altro mezzo di indagine e conoscenza non ammette e ha liquidato con poca grazia l’invisibile, non è più in grado, non ha più gli strumenti per rapportarsi con la morte.
Dunque, come accade, la morte diventa qualcosa da analizzare in convegni, seminari, corsi universitari, forse per tornare a darle quella solennità, quella dignità di cui il mondo moderno l’ha privata. Eppure non posso non pensare che, l’esistenza di una disciplina chiamata tanatologia, che lo studiare NON da un punto di vista storico o antropologico o filosofico la morte, ma da un punto di vista patologico e medico (come affrontarla, come aiutare chi resta ecc.) significhi definitivamente relegare l’evento che accomuna ogni essere vivente in un ghetto accademico. Tuttavia, se l’affrontare questo nodo con un approccio interdisciplinare può servire a liberare il rapporto con la morte dalle retrovie della sua rimozione, ben venga.
Dal 6 all’8 settembre 2012 il Centro Culturale San Gaetano di Padova ospita il Convegno internazionale ”Dinanzi al morire”, organizzato da Ines Testoni direttore del Master “Death studies & the End of Life” dell’Università di Padova in collaborazione con FISPPA sezione di Psicologia Applicata, Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche Università degli Studi di Padova, Associazione Italiana di Psicologia, Ordine Nazionale Psicologi, Comune di Padova – Assessorato alla Cultura, GRUPPO AIP “Death & Dying studies per l’intervento psicologico”, Ordine degli Psicologi, Ordine dei Medici, Sicp, Aiom, Sipsot e Sipo.
Nel primo pomeriggio del 6 settembre si sono incontrati sul podio dei relatori il Rabbino Giuseppe Laras, presidente della Comunità Rabbinica italiana, il filosofo Umberto Curi e il lama tibetano Tharchin Rimpoche, a presentare ciascuno la propria visione e le proprie considerazioni sulla morte e sul come affrontarla.
La cosa più interessante è stata osservare e mettere a confronto tre mondi, tre culture, tre visioni fra loro molto lontane. Umberto Curi, il cui saggio Via di qua. Imparare a morire, esplora proprio ha parlato da filosofo, ma non solo da filosofo, citando Seneca che, nella Lettera a Lucilio, pone, in modo del tutto inaspettato e improvviso, la questione: che cosa è la morte? E la risposta è: o fine o passaggio. “Passaggio” che in termini cristiani, si potrebbe dire “ritorno”. Dunque, ha sottolineato Curi, la morte è qualcosa. Ma per Curi questa risposta di Seneca non è sufficiente. La sua analisi – di cosa sia il processo della morte – spazia dalla tragedia e dalla filosofia greca a Kafka, al gigante Rilke. Dal mito di Orfeo (che impegna Curi da molti anni) alla “favola” dell’ Alcesti euripidea, poiché la filosofia non offre – di fronte alla morte – le chiavi e le parole sufficienti. Con la limpidezza e la chiarezza che gli sono proprie e così rare oggi, ha dato prova di quale ricchezza si dispieghi dianzi a un pensatore se non si limita a coltivare un angusto e soffocante orticello. ”Ciò che la filosofia può fare è mostrare l’infondatezza di ogni discorso che voglia compiutamente dire la morte”, afferma Curi, che è un grande lettore di miti. La morte è ciò che dà significato alla vita. E su questo non si può non convenire. Nell’Euridice di Rilke, Curi scopre la vera lettura del gesto incomprensibile di Orfeo: la sua impazienza di fronte all’estrema lentezza di Euridice nel seguirlo. Per Euridice la morte è una forma di esistenza pari a quella che per i vivi è la vita. Ormai vi appartiene ed è riluttante ad abbandonarla. Al punto è ormai estranea alla vita, che non solo non riconosce Orfeo, ma non ne percepisce nemmeno la presenza. “Chi?” chiede a Hermes. E non ricorda, questa inversione dei piani, la morte descritta dalle mummie leopardiane nel Coro dei Morti del Dialogo di Federigo Ruysch e delle sue mummie?
“Vivemmo: e qual di paurosa larva,
E di sudato sogno,
A lattante fanciullo erra nell’alma
Confusa ricordanza:
Tal memoria n’avanza
Del viver nostro: ma da tema è lunge
Il rimembrar. Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
Che di vita ebbe nome?
Cosa arcana e stupenda
Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
Qual de’ vivi al pensiero
L’ignota morte appar. Come da morte
Vivendo rifuggia, così rifugge
Dalla fiamma vitale
Nostra ignuda natura;
Lieta no ma sicura,
Però ch’esser beato
Nega ai mortali e nega a’ morti il fato.”
Il successivo intervento del Rabbino Laras, dottissimo studioso di Moisè Maimonide e finissimo conoscitore del pensiero ebraico medievale e rinascimentale, ha di fatto posto solo delle domande. Senza dare alcuna riposta. “Nessuno è tornato dalla morte a raccontare cosa ci sia di là”, ha detto. “Tranne in un episodio narrato dalla Bibbia”. L’episodio narra di un uomo, morto e poi tornato alla vita. A chi gli chiedesse come fosse l’aldilà, rispose che era esattamente come qui. Tutto uguale. Solo rovesciato. Quelli che erano stati ricchi sono poveri, quelli che erano potenti sono miseri ecc. Mi ha affascinata questa prospettiva del mondo rovesciato, perché l’avevo già trovata in quel meraviglioso racconto di Isaac B. Singer, Jachid e Jechidà,in cui degli esseri perfetti abitano un mondo perfetto. Ma anche in quel mondo esiste il peccato, la trasgressione delle leggi che lo reggono. E allora possono essere condannati a morte. E quando si muore, si va a Sheol (il Regno dei morti) che, dice Singer: “laggiù chiamano Terra”. Dunque, la vita è la morte e la morte è la vita.
Ed ecco allora che quel “rovesciamento” quell’inversione che si trovava nell’Euridice di Rilke citata da Curi, ritorna anche qui.
Nell’accennare al Qohèlet poi, al Libro dell’Ecclesiate, il Rabbino ha fatto riferimento al vanitas vanitatum et omnia vanitas che è ciò che resta quando l’uomo pretende di raggiungere la felicità attraverso i beni materiali. La vanità del tutto, se dopo la vita ci fosse solo la morte.
Il Rabbino Laras, nel porre (e porsi) domande, seguendo quindi l’antichissima e sottilissima tradizione talmudica, non aveva risposte da dare su cosa sia il morire, ma la sua esperienza umana di chi assiste nell’ultimo tratto del viaggio i suoi simili e può solo dare come viatico la propria presenza amorevole e amicale.
Infine, in questo che ai miei occhi è apparso davvero un rivivere la parabola di Melchisedec e il Saladino, pur con il buddhismo al posto dell’Islam, ha parlato il Lama Tharchin Rimpoche. Ho trovato il suo sforzo di esprimersi in italiano una prova di generosità e coraggio, perché non conosce molto bene la nostra lingua. Ma questo non solo non gli ha impedito di farsi comprendere perfettamente, anzi gli ha permesso di isolare quei pochi concetti, apparentemente semplici, ma enormi come oceani, che sono alla base del lamaismo tibetano, ma anche più in generale del buddhismo. Perché temere la morte? E’ un ritorno a casa. Si torna a casa dopo “una vacanza di lavoro”, la vita. E se l’uomo vive con questo perenne stato di pesantezza, di scontentezza, che gli grava l’anima nonostante tutto ciò che possiede, questo è l’effetto dell’attaccamento. Ma, ripeteva il Lama, qui tutto è impermanenza. Nulla è stabile, nulla è fisso. Tutto di fatto è illusorio, proprio come nel Qohélet del rabbino Laras. Vero, forse si dirà che sono i soliti, pochi concetti che il buddhismo parrebbe ripetere agli orecchi occidentali. Ma il buddhismo non usa lo strumento della dialettica. I Maestri buddhisti non articolano in analisi sottili il loro insegnamento. danno solo delle regole pratiche. Poiché il buddhismo, come anche le arti e la medicina in oriente, insegna attraverso la pratica. In India questa antichissima tradizione si chiama guru-shishya parampara. Trasmissione diretta da maestro ad allievo attraverso la pratica.
Mi piace qui però ricordare quel grandissimo pensatore rivoluzionario, slegato da ogni scuola di pensiero, filosofia, credo o religione e che rifiutò tutta la vita di avere un seguito, una scuola o dei seguaci. Parlo di Jiddu Krishnamurti. Nella conferenza dal titolo “Sul vivere e sul morire” che tenne a Madras nel 1959, afferma che la radice di ogni disagio e infelicità è la paura. E la paura più grande è quella della morte. Ora – si chiede Krishnamurti – cos’è la morte? La stessa domanda di Seneca. La morte, dice Krishnamurti, è cessazione. Non ha importanza che vi sia o meno una vita dopo la morte. Ciò che interessa è la cessazione.
“Posso sperimentare tale cessazione mentre sono ancora in vita? Come posso far sì che la mia mente, con tutti i suoi pensieri, le attività, i ricordi, giunga alla fine mentre sono in vita, con il corpo non ancora intaccato dalla vecchiaia e dalla malattia, o spazzato via da un incidente?
La mia mente, che ha edificato un senso di continuità , può cessare ora , invece che all’ultimo respiro?
Voglio dire , è davvero impossibile liberare la mente da tutto ciò che la sua memoria ha accumulato?
Qualsiasi cosa siate, buddhisti, induisti, cristiani o altro ancora, siete plasmati dal passato, dalle abitudini, dalla tradizione.
Siete avidità, invidia, gioia, piacere, il godimento di qualcosa di bello, l’angoscia del non essere amati, del non riuscire a realizzarsi; siete tutto ciò, ovvero il processo della continuità. Consideriamone un aspetto: siete attaccati a ciò che possedete. È un dato di fatto. Non intendo parlare del distacco.
Siete attaccati alle vostre opinioni , al vostro modo di pensare.
Ora , siete capaci di porre fine a tale attaccamento?
Perché siete attaccati? È questo il punto, non come realizzare il distacco.
Se vi sforzate di essere distaccati, non fate altro che alimentare l’opposto, e di conseguenza la contraddizione continua. Tuttavia nel momento in cui la vostra mente è libera dall’attaccamento, è anche libera da quel senso di continuità che è generato proprio dall’attaccamento, non vi pare?
Allora , perché siete attaccati a qualcosa?
Perché avete paura che senza tale attaccamento non sareste nulla; quindi voi siete la vostra casa, siete vostra moglie, siete il vostro conto in banca, siete il vostro lavoro.
Siete tutte queste cose. Se riuscirete a mettere fine a tale senso di continuità, generato dall’attaccamento, facendolo cessare completamente, saprete cos’è la morte.
È chiaro? Per esempio, supponiamo che io odi e che mi sia trascinato quest’odio nella memoria per anni, lottando continuamente con esso.
Posso smettere di odiare all’istante?
Posso lasciarlo andare con la stessa definitività della morte?
Quando la morte sopraggiunge non ci chiede il permesso, arriva e si prende la nostra vita , ci distrugge in un sol colpo.
Possiamo lasciar andare nello stesso modo l’odio, l’invidia, l’orgoglio del possesso, l’attaccamento al credo, alle opinioni, alle idee, a un certo modo di pensare?
Possiamo abbandonare tutto ciò all’istante?
Non c’è un metodo per farlo, perché ciò non rappresenterebbe altro che una forma di continuità. Abbandonare credo, opinioni, attaccamenti, avidità o invidia vuol dire morire, morire ogni giorno, in ogni momento.
Se giungiamo alla cessazione di ogni ambizione, istante dopo istante, conosceremo quella condizione straordinaria che consiste nel non essere nulla, nel raggiungere, per cosi dire, l’abisso dell’eterno movimento, e oltrepassarne il confine, che è la morte.
Voglio sapere tutto della morte, perché la morte potrebbe essere la realtà , potrebbe essere ciò che chiamiamo Dio , quel qualcosa di assolutamente straordinario che vive e si muove, eppure non ha inizio né fine.
Ecco perché voglio conoscere la morte completamente.
Perciò devo morire a tutto ciò che già conosco.
La mente può essere consapevole del non conosciuto solo se muore al conosciuto, se muore senza avere obiettivi, senza sperare in una ricompensa né temere una punizione.
Allora potrò scoprire cosa sia la morte mentre sono ancora in vita, ed è in tale scoperta che posso trovare la libertà dalla paura.
Che ci sia o non ci sia una continuità dopo la morte fisica è irrilevante.
Che ci sia o non ci sia una rinascita è una questione di nessun conto.
Per me la vita non è separata dalla morte perché nella vita c’è la morte.
Non c’è separazione tra la morte e la vita. Possiamo conoscere la morte perché la mente muore in ogni istante, ed è in quella cessazione, non nella continuità, che si cela il rinnovamento, la novità, la vitalità e l’innocenza.
Tuttavia , per molti di noi la morte è una cosa che la mente non ha mai davvero sperimentato. Per poter sperimentare la morte mentre siamo ancora vivi, dobbiamo abbandonare ogni sotterfugio mentale, ovvero tutto ciò che ci impedisce un’esperienza diretta.
Mi chiedo se abbiate mai conosciuto veramente l’amore.
Penso che in realtà morte e amore vadano di pari passo.
Morte , amore e vita sono la stessa identica cosa.
Ma noi abbiamo diviso la vita, così come abbiamo fatto con la terra.
Parliamo dell’amore come di qualcosa che può essere carnale o spirituale, e abbiamo dato avvio a una battaglia tra il sacro e il profano. Abbiamo separato ciò che l’amore è realmente da ciò che dovrebbe essere, cosicché non giungiamo mai a sapere cosa sia.
L’amore è senza dubbio una sensazione totale che non è sentimentale, nella quale non c’è alcun senso di separazione. È la completa purezza della sensazione senza le caratteristiche divisorie e frammentanti dell’intelletto. L’amore non ha un senso di continuità. Laddove c’è un senso di continuità l’amore è già morto, ha il retaggio dello ieri, con i suoi tristi ricordi, le liti e le brutalità.
Per amare bisogna morire. La morte è amore, le due cose non sono separate.
Tuttavia non voglio che vi lasciate incantare dalle mie parole: dovete sperimentarlo, e cioè penetrarlo, gustarlo e scoprirlo da soli.
La paura della più totale solitudine, dell’isolamento, del non essere nulla è la base, la radice stessa della nostra auto contraddizione. Poiché abbiamo paura di non essere nulla, subiamo la frammentazione generata dai nostri desideri, ognuno dei quali ci spinge in una direzione diversa. Ecco perché c’è sicuramente libertà dalla paura quando la mente conosce l’azione totale, non contraddittoria; un’azione nella quale andare in ufficio non è diverso dal non andarci, dal diventare un sannyasin, dal meditare o dall’osservare il cielo al tramonto.
Tuttavia la paura stessa deve essere sperimentata, altrimenti non può esserci libertà dalla paura, e per sperimentare la paura occorre rinunciare a ogni metodo e mezzo per sfuggirla.
Il dio in cui credete è un meraviglioso espediente per sfuggire alla paura.
I rituali, i libri, le teorie e il credo ci impediscono di sperimentarla realmente.
Scopriremo che solo nella cessazione c’è una totale assenza di paura ; la cessazione dello ieri, di ciò che è stato, ovvero del terreno in cui la paura affonda le sue radici.
Solo così capiremo che l’amore, la morte e la vita sono un’unica cosa .
La mente è libera solo quando è stata abbandonata l’accumulazione della memoria.
La creazione è nella cessazione , non nella continuità. E’ l’unica via per giungere a quell’azione totale che è vita, amore e morte.”
Nelle parole di Krishnamurti non posso non ravvisare la lettura rivoluzionario che Carlo Diano, che pure non conosceva questo testo del pensatore indiano, diede dell’Alcesti di Euripide.
(C) 2012 by Francesca Diano – RIPRODUZIONE RISERRVATA