Dino Zoff, dicevo. Ricordo ancora a memoria (giuro!) la formazione della Juventus stagione 1973-74: Zoff, Spinosi, Marchetti; Furino, Morini, Salvadore; Causio, Cuccureddu, Anastasi, Capello, Bettega. Trascorrevo le domeniche accovacciato sul tappeto della mia stanza davanti alla radio, Tutto il calcio minuto per minuto. Dopo due scudetti consecutivi, per me storia inedita, la Juventus finì il campionato alle spalle della Lazio. Zoff era già una specie di archetipo: prima di lui, con il numero uno sulle spalle, nomi biblici che per me non significavano nulla. All’epoca aveva sui trent’anni, quindi me lo raffiguravo come un anziano sapiente e infallibile. Quei pochi gol che prendeva potevano essere solo colpa del fato. Altra formazione, la Juventus 1976-77: la prima di Trapattoni. Zoff, Gentile, Cuccureddu; Furino, Morini, Scirea; Causio, Tardelli, Boninsegna, Benetti, Bettega. La Juventus dei 51 punti (su 60 a disposizione), vincente di un’incollatura sul Torino dopo un campionato elettrizzante, aperto fino all’ultima giornata. La Juventus che conquistò il suo primo trofeo internazionale, la Coppa UEFA, finale contro l’Athletic Bilbao. Zoff l’eroe eponimo. Il ’78 fu l’anno dello scudetto-bis, del quarto posto dell’Italia ai Mondiali in Argentina (ma il miglior gioco in assoluto), e dei quarti di finale della Coppa Campioni: quelli in cui Zoff parò tre rigori ai lancieri dell’Ajax. A trentasei anni era al culmine della carriera, sebbene qualcuno cominciasse a malignare. Vecchio? Aiace Telamonio non poteva essere vecchio. Un mito, piuttosto.
E il mito continuò a difendere imperterrito la porta della Juventus e della Nazionale con parate prodigiose. Ora lo vedevo dal vero, allo stadio, infondeva nei tifosi un senso di sicurezza come se la porta fosse sprangata. Lui dietro e Scirea subito davanti. Risultato in cassaforte.
La formazione della Nazionale Campione del Mondo 1982 è una litania mandata a mente in saecula saeculorum: Zoff, Gentile, Cabrini; Bergomi, Collovati, Scirea. Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani. Il miracolo di Zoff contro il Brasile (colpo di testa di Oscar bloccato sulla linea) vale come i sei gol di Pablito Rossi capocannoniere. San Dino. E la Juventus 1982-83 è un rosario da sgranare con gli occhi: Zoff, Gentile, Cabrini; Bonini, Brio, Scirea; Briaschi, Tardelli, Rossi, Platini, Boniek. La finale di Coppa Campioni persa malamente contro l’Amburgo resta però un ricordo amaro. Zoff in ginocchio dopo il gol di Magath, il simbolo dell’avvenuta capitolazione, l’ultimo con la maglia bianconera. Un giorno di maggio 1983, dopo Svezia - Italia 2-0 che se non fosse stato per lui sarebbe stata una goleada, Zoff il taciturno convoca una conferenza stampa per prendere congedo.
All’annuncio, ricordo che mi sentii improvvisamente orfano. Sembrava impossibile che un giorno la formazione della Juventus cominciasse con un nome diverso dal suo. In quel momento, forse per la prima volta, ebbi la consapevolezza che la vita procede per cicli, ad un certo punto subentra una privazione con la quale dobbiamo fare necessariamente i conti.
Il nome di Dino Zoff rimane però scolpito nella memoria, non solo sportiva. Un atleta fuoriclasse, un vero numero uno, equilibrato, sereno, misurato nello stile. Aveva un gran senso della porta, della posizione, le sue parate erano essenziali, mai inutilmente plateali. Trasmetteva fiducia, ai compagni e ai tifosi accalcati sugli spalti o davanti al televisore. Concedeva poche parole eppure chiare, senza farsi coinvolgere dalle polemiche. Ma la sua leggenda nasce, ancor più che dal palmarès impareggiabile, dai comportamenti fuori dal campo. Un uomo vero, di spessore, dal carattere forte, provvisto di una straordinaria forza morale.
Lo sport può insegnarci molto, soprattutto la giusta mentalità per affrontare l’esistenza. Dino Zoff resta in questo senso un esempio tra i più fulgidi.