L’inserimento di nuovi testi, la revisione dei precedenti, una disposizione strategica dell’insieme, hanno prodotto questo Sentire le donne (1989-2014) che l’Editoriale il Fatto S.p.A. ha da poco mandato in edicola e in libreria in un’edizione bellissima ed economica (euro 9,70, pp. 474). Non già, dunque, la ristampa di una vecchia miscellanea, bensì un imprevedibile romanzo sull’umanità e sull’italianità dell’ultimo quarto di secolo. Oppure, che è lo stesso, un’enciclopedia o catalogo ragionato della femminilità intesa come mestiere e fascismo imperituri praticati a pari demerito da uomini e donne, sola eredità culturale condivisa da esseri altrimenti destinati a darsi vicendevolmente le spalle.
Non un libro sulle donne o contro le donne, dunque. Semmai il contrario, visto che il suo tema di fondo è la mancanza di virilità che affligge l’esistenza di maschi e femmine ingabbiati dentro identità sessuali e sociali stantie, claustrofobiche, autodistruttive. Le donne-donne c’entrano fino a un certo punto, essendo soprattutto la più prodiga e fortuita fonte di informazioni veridiche sulla condizione di stallo in cui versa l’umanità in genere e al di là dei generi. Dal racconto Lei: “È meraviglioso come studiando una donna (…) si imparino al contempo tutti gli uomini che ha avuto, mentre a studiare un uomo non si riesce a imparare nemmeno lui”. Insomma, chi dice donna dice uomo, ma dice anche immobilità colpevole e persistente, giacché per Busi, essere donna oggi equivale a fare l’esperienza della paralisi politica e intellettuale a ogni stadio possibile di efferatezza e bancarotta della volontà, precipitando dapprima nel vittimismo e poi nella sua professionalizzazione, crescente e non di rado machiavellica.
Mosso da una curiosità affettuosa, e dal desiderio di aggiornare gli estremi di emarginazione cui pervengono le “donne di entrambi i sessi” (espressione di conio busiano ormai entrata in proverbio), Busi raccoglie e pone in vetrina un campionario di femminilità antiquate e all’ultimo grido, derelitte ed esuberanti, crepuscolari e aurorali, ciascuna con il suo cartellino del prezzo bene in vista. Correlato alla femminilità è infatti il tema del suo mercimonio, e dei costi umani che comporta. Disprezzando gli uomini, i quali le disprezzano a loro volta, le donne li comprano e ne sono comprate, dando vita all’amore, che in Sentire le donne è il primo nome della prostituzione, colossale giro d’affari ormai talmente lucrativo e pervasivo da sfuggire alla vista e alla consapevolezza degli attori che lo animano.
Alcuni di questi manierismi sono pittoreschi e teatrali per manifesto intento di provocazione estetica (in Provino a luci rosse, lo scrittore partecipa vestito da donna al casting di un film di Tinto Brass); altri sono tragicomici e quasi eroici, e riguardano principalmente i travestiti da marciapiede (se ne incontrano parecchi tra le pagine del libro); altri ancora sono esilaranti per la forza del contrasto (il poeta Dario Bellezza, che “nel suo sguardo intensamente matriarcale, è nonna fatta da mettere accanto a un caminetto a pelare patate”).
C’è persino (nel racconto Non lettrice dal vivo) una donna che a scopo di seduzione si traveste da femmina come-tu-mi-vuoi secondo un cliché machista, “pura donna per puro suino”, salvo fare fiasco con lo scrittore preso di mira perché, come ammette Busi, “io non sono un porco comune, ahimè”. Non mancano le donne stuprate, anche letteralmente, dal familismo (Lettera a Viola violata), vittime totali la cui mente torna a essere logica solo quando si tratta di scaricare sugli altri la colpa delle proprie infelicità.
C’è la replica dello scrittore a una prodigiosa bambina che gli scrive esprimendosi come una navigata cittadina del mondo (e che forse “ti chiami invece Ugo e hai settantatré anni”: si legga la splendida Lettera di una cittadina di dodici anni allo scrittore che le piace di più). E c’è la trentenne attrice maggiorata che va per la maggiore (Il gelato in bocca), disincantata con lo scrittore, svampita ad arte con il proprio amante, così ad arte da pervenire, passando per gli antipodi, a una sprovvedutezza autentica, non si sa se irritante o commovente. Dietro gli arabeschi della seduzione, sotto la maschera di disinvoltura e le acconciature elaborate, Busi rintraccia sovente quell’innocenza testarda che, nelle donne più smagate, convive languidamente con le esperienze più umilianti e dolorose.
La discrepanza solo apparente tra la donna anni Venti, vispa e reazionaria, e quella fintamente spavalda e anticonformista, e già un po’ depressa, del nuovo millennio, aggiunge una nota di grottesco alla rappresentazione delle femminilità improvvisate e di confine, interpretate per lo più da uomini, secondo Busi insuperati campioni di primodonnismo. Anche qui, accanto all’uomo che scimmiotta la donna (e può essere una checca come il Peretta del racconto Debutto, oppure un trans come la Paola di Paola e Clara), troviamo l’uomo che recita niente meno che il maschio latino e neorealista (Al sangue), sgranando un rosario di stereotipi che quasi lo strangolano dalla fatica che gli costa impersonarli. Proprio come farebbe una donna con una femminilità d’antan.
Solo Busi sa fartene vedere di tutti i colori prendendo e scomponendo il rosa uniforme e accerchiante della femminilità intesa come virilità in mancanza di meglio. Perché (come si legge in Lezione di congiuntivo al bar Regina) il pendant di “Siam donne!” non è ancora un esultante “Siam uomini!”, bensì un dimesso, e sommesso,“Dio figa”.
Marco Cavalli
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 19 – Giugno 2014
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