Dio salvi il Made in Italy

Creato il 27 dicembre 2011 da Hermes

Il made in Italy è un'annosa questione. Non solo per la moda, ma anche per l'economia: significa la produzione in Italia e la sua tutela. Farlo finire nel baratro sarebbe follia.
Il made in Italy è infatti sinonimo di qualità. Secondo le teorie di Theodor Levitt, famoso economista americano - che tralaltro ha anche ispirato Brunello Cucinelli- i paesi sviluppati, in futuro (e già ora), dovrebbero dedicarsi alla produzione di articoli di alta gamma, qualità e nicchia, e posizionarsi in segmenti di mercato totalmente diversi da quelli degli stati in via di sviluppo.
Questo è all'incirca quello che già succede in Italia, ma bisogna dare una certificazione che ne garantisca la qualità: i clienti stessi anche devono essere "educati" a capirlo, solo così il MII (made in Italy) manterrà il suo significato.
Cosa intendo per "certificazione che garantisca la qualità"? Tante idee sono state proposte: in Francia si è parlato di una classificazione a stelle su modello alberghiero (made in italy 5 stelle, 4, 3,...), oppure bisognerebbe avere un qualcosa come "100% made in Italy", e io dal canto mio dico che bisognerebbe trovare un modo di garantire che il capo è stato realizzato senza sfruttamento e da manodopera ITALIANA.

Il risultato? Un cliente più interessato a comprendere cosa sia il MII, una garanzia maggiore di qualità e una tutela per gli artigiani italiani.
Gli stessi artigiani che andrebbero incentivati e agevolati: meno burocrazia, begli stipendi. Questa è la sintesi di una serie di parole come meritocrazia, mobilità, meno tasse, punizioni per il lavoro nero... sembra impossibile nel nostro Paese vederle conciliate, ma si può e deve fare. Un appello simile lo lancia Paola Bottelli dal s uo blog sul Sole 24 ore.

Ci sono, però, due buone notizie che vi volevo segnalare su due gruppi onesti e volenterosi: Gucci (non Gucci group che non mantiene una politica comune) e Ittierre.
Quest'ultima era parte di un grande gruppo, la It Holding di Pettoranello di Molise, piccolo borgo quanto importante per il made in Italy, che si è trovato in condizioni economiche disastrose. Dopo la cassa integrazione e l'arrivo degli ispettori del ministero dello Sviluppo Economico, le tre società che la componevano sono state svendute, a prezzi irrisori. La prima è Malo, del cashmere, poi Ferrè, finita in mano a un gruppo arabo che si dice l'abbia pagata una cifra insulsa, e poi il cuore della holding, la ittierre appunto, che produce per conto di molte branche giovani di grandi marchi.
La Ittierre, dicevamo, è andata al gruppo Albisetti (che produce anche le linee mare di Hermès, Lanvin e tanti altri), tutto questo circa un anno fa.
Oggi il 2011 si chiuderà con un pareggio, sono state riassunte seicento persone su mille (un centinaio di più rispetto alle previsioni) e la società sta segnando una serie di successi notevoli. Oltre a rimanere licenziataria di Galliano, Scervino, GF Ferrè (la linea giovane) e altri, sono arrivati accordi con Aquascutum, Pierre Balmain (linea giovane di Balmain), Lagerfeld, Fiorucci e addirittura Tommy Hilfigher, proprio pochi giorni fa.
Si ipotizza che grazie a quest'ultima il fatturato possa salire da 150 milioni di quest'anno a 220 nel 2012 e 300 e passa nel 2012.


Il signor Bianchi, proprietario di Albisetti, al Corriere della Sera si è dichiarato ottimista: "In Molise e in tutta l'area circostante, anche pugliese, ci troviamo in un'oasi felice. Abbiamo un attaccamento al lavoro che non c'è più in Brianza e un costo al minuto che è inferiore del 50 per cento a quello del Nord Italia. Un "Made in Italy" eccezionale a un prezzo più contenuto. I nostri prezzi tra poco saranno competitivi con quelli della Cina che sta alzando il suo costo del lavoro e che ha dazi del 12 per cento, costi di trasporto e richiede grandi quantità di prodotto".

Sono dubbioso sulla competitività con la Cina, ma del resto credo che i due paesi debbano avere produzioni che vanno su due binari opposti: qualità di nicchia in Italia, prodotti a basso prezzo in Cina. Certo che però le griffes che producono in Cina con prezzi da sartoria londinese fanno rabbia e, per ricitare Levit, "L'idea che l'industria sia un processo di soddisfazione dei clienti, non un processo di produzione di beni, è vitale e deve essere compresa da ogni businessman".


"[...] Gucci, in nome della sostenibilità economica e sociale, ha spinto i propri fornitori strategici del comparto pelletteria (che vale il 58% del business del marchio) ad allearsi per migliorare la competitività.
Il risultato sono tre reti d'imprese, nate col supporto di Confindustria Firenze e formate in tutto da 24 fornitrici di primo e secondo livello del brand della doppia "G", che nel complesso fatturano 76 milioni e impiegano 635 persone, e che ora si impegnano contrattualmente a collaborare su terreni come l'efficienza produttiva, l'innovazione tecnologica e organizzativa, gli standard di qualità e sicurezza.

Gucci fungerà da sponsor delle reti, in pratica un facilitatore che indirizza, scambia buone prassi, fornisce consulenza in campo organizzativo, tecnologico, formativo e finanziario (per rendere più agevole l'accesso al credito). "Non possiamo permetterci che eccellenze della filiera della pelletteria vadano disperse", spiega Micaela Le Divelec Lemmi, executive vice president di Gucci, riferendosi in particolare all'area fiorentina dove l'azienda conta 60 fornitori di primo livello e decine di subfornitori, che nel complesso impiegano settemila lavoratori (sui 45mila che in Italia alimentano l'intera filiera produttiva di Gucci).
In quest'ottica, uno degli obiettivi delle reti d'imprese "sarà la trasparenza nel flusso della marginalità all'interno della filiera, in modo che tutti i partecipanti abbiano un giusto apporto", aggiunge Karlheinz Hofer, direttore Operations e supply chain di Gucci. In sostanza, sapere esattamente quanto guadagna ciascuno degli anelli della filiera produttiva servirà a scongiurare situazioni di crisi dei singoli e anche fenomeni di subfornitura a bassa remunerazione. Sugli aspetti di eticità della filiera, per la verità, Gucci sta lavorando da tempo - è una delle poche aziende del lusso che ha la certificazione di responsabilità sociale Sa8000 per pelletteria, gioielli, scarpe e abbigliamento - anche con un innovativo patto di filiera per le buone pratiche e la sostenibilità economica della filiera promosso nel 2009 con Confindustria, Cna e sindacati fiorentini. È proprio da quel patto, spiega la vicepresidente Le Divelec Lemmi, che sono scaturiti i tre contratti di rete stipulati in questi giorni (battezzati P.re.Gi, Almax e Fair) applauditi dal presidente di Confindustria Firenze, Simone Bettini: "Attraverso queste reti Gucci trasferisce al nostro territorio la cultura di una multinazionale, e dunque dà un apporto fondamentale alla crescita, e per questo dobbiamo essergliene grati"."

Bello da parte di una grande azienda avere quest'attenzione, no? Peccato non sia la norma...



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