Dippold l’ottico

Da Lidiazitara @LidiaZitara

Che cosa vedete adesso?
Globi di rosso, giallo, porpora.
Un momento! E adesso?
Mio padre e mia madre e le mie sorelle.
Bene! E ora?
Cavalieri in armi, donne bellissime, visi delicati.
Provate questa.
Un campo di grano—una città.
Molto bene! E ora?
Una giovane donna e angeli chini su di lei.
Una lente più forte! E ora?
Molte donne dagli occhi luminosi e le labbra socchiuse.
Provate questa.
Un bicchiere su un tavolo, nient’altro.
Ah, capisco! Provate questa lente!
Solo uno spazio aperto—non vedo niente di particolare.
Bene, e ora!
Pini, un lago, un cielo d’estate.
Va meglio. E adesso?
Un libro.
Leggetemi una pagina.
Non posso. I miei occhi sono attratti oltre la pagina.
Provate questa lente.
Abissi d’aria.
Magnifico! E ora?
Luce, soltanto luce, che trasforma tutto il mondo sottostante in giocattolo.
Benissimo, faremo gli occhiali così.

Non è un luogo ma un come, nonostante ciò spero che venga accettato di buon grado, anzi, forse sarebbe meglio usare la parola “diottria”.
Sono miope: 3,5 gradi. Se volete averne un’idea fate conto che con 3,5 gradi di miopia per riconoscere i lineamenti del volto di una persona dovete esserle a meno di un metro di distanza.

Avrei potuto fare il noto intervento di riduzione della miopia, dopo il quale molte donne hanno ripreso a mettere lenti non graduate pur di portare montature alla moda, ma ho voluto conservarmi il dono di una duplice vista: una tecnicamente corretta, precisa, nitida, socialmente imprescindibile anche se molto prevedibile. E un’altra sfocata, “sbagliata”, scambista, a volte paurosa, ma mai confusa, come tutti i non ipovedenti sono convinti che sia. Non si confonde il verde dell’oleandro con quello del corbezzolo, né il rosa delle rose con quello delle godezie.

La miopia non è confusione: è bellezza. È quel velo di cipria con cui il modo si imbelletta ogni tanto. Scompaiono le scritte sui muri, le ammaccature sulle auto, le creste sulle teste dei giovani pubescenti usciti a frotte dai manicomi scolastici. Scompaiono gli afidi sui fiori di Hibiscus.
L’anonimo riflesso meridiano sui fari di quell’auto lì, sì, proprio quell’orribile auto grigia parcheggiata di fronte alla biblioteca, diventa un triplo circolo barbagliante di frattali diamantati. Basta socchiudere le palpebre, ruotare la testa o di qua o di là, e la forma cambia, si allunga, diventa più ovale, si schiaccia, si riempie di spigoli appuntiti. Le punte si allungano, come quelle delle aureole dei santi nelle immaginette, diventano lame di luce iridescente.

In lontananza piccole stelle comete si muovono in linea retta, in fila indiana, come i frammenti della Schoemaker –Levy 9 in rotta verso Giove, altre si muovono intorno con un moto browniano, quali più lente (occhiali a specchio?), quali più rapide (il fanalino posteriore di un vespino che fa retromarcia?). Ogni stellina o perlina di luce  si porta dietro una scia sfarfallante come capelli d’angelo.
La notte sembra di stare nel profondo di uno scuro e freddo oceano, popolato da strane creature e pesci luminosi, meduse multicolori, pesci lanterna, krill fosforescente.

Ma il momento più bello è il pomeriggio, sdraiati sul divano, a fingere con se stessi che non si dormirà che cinque minuti. La luce pomeridiana, non ancora dorata, filtra dalle tapparelle, e ogni foro diviene un occhio luminoso e benevolo, non maligno come quello di Sauron. Si dilata, si restringe, prende insoliti colori, dall’azzurro violento del cielo, al verde giunglesco degli avocados, al terra di siena delle imposte. Sfuma, vira, riflette, schiocca la luce come un colpo dato col pollice e l’indice. Tutta la serranda, come insieme, invece di occultare, filtra e amplifica la luce, la esalta, colorandola in girandole caleidoscopiche e mutevoli. Un tappeto verticale di lamelle di luce, biforcute, triforcute, multiforcute, una più alta, una più bassa, rotanti, colorate e veloci a prendere l’una il posto dell’altra, o dar spazio ad altre nuove nate dai mille occhi luminosi.

La luce diventa morbida, commestibile, carezzevole. Uno spettacolo privato, per chi è privato degli regolamentari dieci decimi. Si sta, in quei momenti, abbandonati e inerti, in contemplazione della magia causata da un errore di natura.

Dolce per sé, come disse Leopardi (non Maraini Dacia), mai veramente spiegabile, pertanto suscettibile di poesia, come è sempre la luce, specie quando devia dai suoi canoni narrativi tradizionali.

Dippold l’ottico.


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