Lo scrive Stefan Zweig, nel suo romanzo dedicato al grande Magellano. Subito mi sono segnato la frase, mi piaceva, risuonava e, in qualche modo, ricordava anche un famosissimo – e molto diverso – passo della Poetica di Aristotele (1452a-b). Eppure qualcosa mi ha subito tratto in sospetto. Intanto per Occorre, detto in altri termini, che non si possa parlare seranemente di sé.a possibilità che una tragedia (una tragedia che pure ci riguarda) può riguardarci, coinvolgerci per intero, avvenga al di fuori del nostro stato di coscienza. Poi per un altro aspetto, se vogliamo ancora più radicale. “Riconoscere la tragicità della situazione” significa intuire un senso del tragico immanente ed estraneo all'esperienza umana, aderire a una tessitura narrativa “precompilata”. Tra l'altro, questo senso del tragico – così caro a noi Siciliani e ai meridionali in generale – è molto aristocratico, perché comporta una frequentazione con tutta una serie di testi che hanno un iter preciso.
Un iter, appunto, non una trama, una parabola astratta. Qualcosa di più profondo e impalpabile, che si condivide quasi senza conoscerlo. Non sono proprio nella posizione di esprimermi in merito alle strutture profonde dell'esistenza e di avallare oppure di negare l'esistenza del “tragico”. Ma posso pur sempre dire che trovo nella frase di Stefan Zweig una nota che in me risuona falsa: “riconoscere la tragicità della situazione” è, da parte del protagonista, il tentativo di iscriversi all'interno di un'esperienza (pretesa) universale, significa riscrivere in modo orientato la propria storia. Significa parlare di sé, posare le fondamenta di un castello narrativo tutto personale. E qui entriamo in un campo nel quale invece credo di poter dire la mia.
Ho sempre trovato molto attraente chi parla di sé (e non l'ho mai nascosto); nello stesso tempo mi ha sempre colpito l'incapacità di farlo da parte di alcune persone, che non trovano nulla di interessante da dire su di sé, eppure sono a loro modo contenti della loro vita, tanto quanto l'inarrestabile boria autocelebrativa di altri. Sembra che, a parlare di sé, non si possa far altro che celebrarsi e non ci posso far niente se il mio passato filologico rientra subito prepotente: se qualcuno ha tempo e voglia, provi pure a leggere in che modo Ercole parla di sé nell'elegia 4.9 di Properzio e rimarrà stupefatto confrontando quelle parole con i ricordi scolastici sull'eroe. Rimane poi un terzo caso standard, le confessioni tra amici, volgarizzate nei romanzi e nei film, finanche in serie televisive: penso per esempio alla popolarissima Sex and the City, dove il parlare di sé consiste in una selezione ristretta di argomenti e di snodi narrativi possibili.
Il caso (unito, se si vuole, alla mia contorsione mentale) ha voluto che, dopo aver posato il libro di Zweig, mi sono imbattuto sul web in un articolo della sezione sportiva del «Corriere della Sera» dove si parla dell'outing del campione olimpionico Ian Thorpe. Mi sono chiesto cosa mai ci entrasse con lo sport la rivelazione sulle preferenze sessuali e sulle scelte di vita del nuotatore australiano. Ho pensato fosse una scelta sensazionalistica del titolista, ma così non è, l'articolo vi indugiava su. Naturalmente io non ho nulla da ridire in merito, ci mancherebbe altro. Non ho nulla neanche da commentare in merito alla libertà di ciascuno di fare outing pubblico, giacché dal mio punto di vista ciascuno è libero di esprimere la sua esistenza come meglio crede. Sul momento mi aveva solo colpito l'etichetta “sport” sulla notizia che non ha nulla di sportivo.
Lo so, lo sport non è solo sudore e medaglie, coppe e fatica, bensì vita vissuta, ma perché si arrivi a fare coming out occorre altro, occorre che qualcosa si sblocchi all'improvviso. Occorre che non si possa parlare di sé in modo sereno, perché l'outing è un'esplosione, un momento di rottura del silenzio o della negazione su un argomento. O, negli adolescenti, l'irrompere della chiarezza su se stessi. “Rivelare” è qualcosa di diverso dal dire, soprattutto quando la ricaduta mediatica è così prorompente. E sia chiaro che la ricaduta non corrisponde per nulla alla sorpresa che genera il fatto in sé, bensì alla pubblicazione dello stesso. Circolavano già rumores in merito alle preferenze sessuali di Thorpe – sempre smentite – eppure la conferma diventa all'improvviso notizia. Sono tutti atti di parola, sono tutte esistenze “dette”, costruzioni di immagini, aderenza a modelli narrativi per essere riconosciuti. Il fatto non è la notizia.
Io capisco benissimo che l'outing di un campione come Thorpe possa essere liberatorio per i molti giovani che vivono male la propria sessualità in un ambiente spesso ostile: ma qui non è più questione – e da tempo! - di viversi o meno, è in gioco il togliere il velo in merito a un aspetto privato della propria vita. Parlare di sé è ben altro rispetto all'aderire a un modello narrativo, che invece serve solo per comunicarsi all'esterno. In altre parole, credo che il Magellano di Zweig stia soltanto costruendo il suo mito e la sua aristia (racconto di prodezze eroiche) e il Thorpe dell'articolo stia solo curando la sua immagine: i personaggi si rappresentano e solo a loro è concesso: se io adesso qui dico che vivo una vita tragica o/e che sono omosessuale, mi si guarderà con un sorrisetto ironico, ci si chiederà che cosa mai voglio rivelare e mi si allontanerà come un mitomane. Le persone a me più care mi si rimarranno vicine, con piccoli e fisiologici aggiustamenti, e la scadente narrativa che mi riguarda circolerà lontano, alle periferie polverose della mia esistenza.
La narrativa su di noi ci coinvolge in misura tanto maggiore quanto meno rilevante è il nostro personaggio, ovvero il nostro potere di gestirla. Uomini tra uomini, subiamo comunque l'influsso di storie (e volontà altrui), ma una volta presa la distanza (e il potere che ne consegue) riusciamo a padroneggiare la nostra storia, ovvero la storia su di noi. Con i personaggi è diverso, perché i personaggi sono coloro che hanno il "potere", creano la loro storia. Dell'uomo che sta al fondo di Magellano e di Thorpe e degli altri – i possibili esploratori e campioni del futuro – non sappiamo ancora molto di più. In compenso sappiamo qualcosa in più di noi, uditorio ciarliero e poco interessato. Io, per esempio, ho l'impressione che dovrò tornare quanto prima al mio amatissimo (e da troppo tempo trascurato) Erving Goffman e affrontare finalmente la lettura di Frame Analysis e Forme del parlare (e forse potrei ripartire anche da Stigma). Che sia la volta buona? (Non so perché, ancora non ci credo. Mi manca qualcosa.)
Riferimenti:
Aristotele, Poetica
Articolo del «Corriere della Sera»
Profilo di Erving Goffman su Wikipedia
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