La socialità del portatore di handicap è un tema rimasto da fin troppo tempo irrisolto, e che continua a riempire inutilmente centinaia di sterili dibattiti. Il ritardo strutturale di cui le nostre città sono affette è questione ormai risaputa, come lo è l’arretratezza culturale rispetto ai problemi della disabilità. Vivere la propria indipendenza, cercando di ignorare quelle che sono le deficienze istituzionali, in Italia, e soprattutto nel meridione, è faccenda alquanto complicata. Provare ad autodeterminarsi, ad esempio, all’interno di una società che si progetta e si modernizza senza mai prendere in considerazione certe esigenze, rende frustrante ogni sforzo di sentirsi parte di una qualsiasi comunità.
Nelle settimane precedenti, grazie a questo utile spazio, abbiamo discusso di vari aspetti che fanno riferimento alla quotidianità del disabile, quali l’accesso alle strutture pubbliche o il rapporto con l’istruzione scolastica. Della sua mobilità, però, della possibilità di potersi spostare da un luogo all’altro potendo di fatto crearsi una vita al di la dell’assistenzialismo, resta ancora un argomento poco dibattuto. I mezzi pubblici, ad esempio, nella gran parte dei casi, risultano non attrezzati al trasporto dei portatori di handicap. I pullman, quei pochi che potrebbero caricare i soggetti in carrozzina, molto spesso non possono farlo in quanto le fermate hanno i marciapiedi non compatibili con le pedane elettriche dei bus. Questo, però, avviene nel caso in cui l’autobus sia munito di tali ausili.
Se pensiamo alla realtà anastasiana, possiamo pure evitare questo complicato ragionamento, perché di trasporti adibiti a questa finalità, non se ne vede neanche l’ombra. Basta pensare alla questione della Circumvesuviana di Madonna dell’Arco, dove la rampa che porta ai treni in partenza è stata sistemata soltanto pochi anni fa in seguito a lotte e proteste di vari cittadini ed associazioni di disabili. Difatti, questo enorme deficit, è soltanto una porzione di un’enorme torta. La mobilità del portatore di handicap, infatti, dovrebbe rientrare nelle prerogative istituzionali degli assessorati di settore. Dai loro uffici, è banale ripeterlo, ci si aspettano progetti che possano permette alle famiglie e ai singoli disabili di poter organizzare le proprie giornate e perché no, una vita a tratti normale.
Andare a scuola, recarsi sul posto di lavoro(quando c’è), svolgere delle semplici commissioni o uscire per respirare un po’ d’aria. Ecco, queste qui, sono alcune delle tante attività che un disabile potrebbe svolgere ma che gli sono letteralmente impedite.
Eppure, da cittadino ingenuo, mi chiedo cosa ne faccia l’assessorato alle politiche sociali di tutte le sue risorse, e quali siano, ogni anno le sue progettualità, visto che, ad osservare la città, non ci si accorge di una politica che sia sensibile a certe necessità. Risulta evidente, per queste ragioni, che il disabile non potrà mai godere di una sua seppur minima indipendenza. Dovrà, per forza di cose, rimanere nell’orbita familiare cercando, soltanto in quell’ambiente, le soluzioni alle sue naturali esigenze.
Ed è qui che si ritorna sul concetto di assistenzialismo. Una politica, quella italiana, che invece di battersi per l’operosità del diverso, preferisce rilegarlo ad una voce di bilancio che ad ogni finanziaria, Tremonti ne è un esempio assoluto, si tenta di tagliare.
Allora è irragionevole, ancor prima che inconcepibile, escludere oltre due milioni di italiani dal miglioramento dell’economia nazionale. Di non essere più una voce a debito per le casse dello Stato, ma una risorsa da sfruttare e coltivare.
Per sottolineare quanto siano arretrate o poco aggiornate le nostre istituzioni locali, riporto integralmente uno stralcio del decreto legislativo n.151 del 26 marzo 2001 in tema di mobilità e di trasporti per le persone disabili:
all'art. 26 "Mobilità e trasporti collettivi" si stabilisce che "le regioni disciplinano le modalità con le quali i comuni dispongono gli interventi per consentire alle persone handicappate la possibilità di muoversi liberamente sul territorio, usufruendo, alle stesse condizioni degli altri cittadini, dei servizi di trasporto collettivo appositamente adattati o di servizi alternativi". Al punto due stabilisce che i comuni assicurino, nell'ambito delle proprie ordinarie risorse di bilancio, modalità di trasporto individuali per le persone handicappate non in grado di servirsi dei mezzi pubblici. Al punto tre fissa che le Regioni elaborino, nell'ambito dei piani regionali di trasporto e dei piani di adeguamento delle infrastrutture urbane, piani di mobilità delle persone handicappate da attuare anche mediante la conclusione di accordi di programma ai sensi dell'articolo 27 della legge 8 giugno 1990, n. 142. I piani dovranno prevedere servizi alternativi per le zone non coperte dai servizi di trasporto collettivo. Fino alla completa attuazione dei piani, le regioni e gli enti locali assicurano i servizi già istituiti. I piani di mobilità delle persone handicappate predisposti dalle regioni sono coordinati con i piani di trasporto predisposti dai comuni.
A questo punto, mi pare addirittura inopportuno parlare di arretratezza o mancanza d’aggiornamento. Qui ci troviamo di fronte ad una totale inosservanza delle leggi vigenti.
Autore: Gianluca Di Matola
Il Mediano
Disabili e mobilità. Una battaglia infinita tra inadeguatezze pubbliche e inosservanze istituzionali
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