Il momento opportuno, questa la chiave di lettura dello scritto presente. Come non riesco ad immaginare la Quinta di Beethoven filodiffusa in spiaggia, così non mi capacito d’esser in preda alla lettura di Diceria dell’Untore. Non il 23 di Luglio, seppure la giornata sia assurdamente uggiosa e buia. Non mi si fraintenda, pur nella mia supponente ignoranza, riesco a cogliere la solita grandezza di Bufalino, persino la sottile (amara) ironia latente nel romanzo, ma quello che mi opprime è il profondo clima di disfatta, la malattia di una società ammorbata e ammorbante. Apro a caso il libro tra le pagine già lette:
Guardo due mosche amarsi sulla mia palma sinistra. Alzo l’altra piano piano, poi la calo, la vibro a tradimento. Mi dispiace fallire il colpo.
Un pessimismo che in tempi di rilassanti bagni marini non è sopportabile a lungo, neanche per il più ignobile dei seguaci domenicali di Schopenhauer (compagine di cui mi rallegro di far parte).
Eppure, passeggiando sulla battigia con un amico, partendo dall’insofferenza per questa lettura intrapresa, si è giunti alla constatazione non del tutto banale che il popolo italiano è in larga misura triste e demoralizzato, ancora reduce di un post-fascismo letterario avvilente, seppur in principio qualitativamente elevato. Quello che intendo affermare è il naturale senso di depressione degli autori che hanno vissuto l’epoca fascista e soprattutto la sua successiva immediata risoluzione nel nulla. Ciò, sia tra gli antagonisti di ferro, anzi “di falce e martello”, quanto tra i disillusi infatuati del primo momento. Uno sparuto gruppo di questa intellighenzia culturale ebbe un moto di stizza ironica, duramente sarcastica, soprattutto nel Cinema: si pensi alla presa in giro del pomposo fascista nei film di Monicelli o di Risi. Ma il fenomeno fu comunque limitato. Per quanto si potesse dileggiare quel recente passato fatto di illusorie costruzioni imperialistiche e di fatue, ignoranti, aspirazioni basso-hegeliane, per quanto la derisione fosse il mezzo forse più adatto per risorgere, la tristezza di quelle camicie nere, le impossibili grottesche “facce” di quel Regime, trasmisero – direi persino giustamente – più sconforto che grasse risate. Via, quest’ultima, che comunque continuo a preferire, quando mi tocca parlare di quel periodo. Non voglio neanche intraprendere ora una disamina sul tristissimo cantautorato italiano post-bellico, ricordando una certa percentuale di suicidi tentati e riusciti nell’ambito. Certo è che quella tristezza è stata comunque estremamente remunerativa.
Ma se naturale è tutto ciò in una generazione che ha vissuto quello sfiduciante tempo di solenni fregature, mi chiedo perchè nessuna generazione successiva ha tentato un risollevamento delle sorti. Mi domando ancora, dopo le fregature di questa cosiddetta seconda repubblica – degeneratamene più allegra del Ventennio – quale sarà la reazione dell’elite culturale? Ci si interrogava, in spiaggia, sulle possibilità per l’Italia di replicare in futuro un Rinascimento fatto di colori, contestuale coincidenza di speranza e derisione dell’Umanità, di ariosteschi giardini di parole e di creatività sprezzante. Eredità per ora dimenticata.
Spero sia chiaro quanto questa nostra discussione sulla lunga stasi depressiva del mondo culturale italiano, non voglia significare un togliere meriti a quegli autori che continuano ancora oggi a influenzarci: Pasolini, Sciascia, Pavese, Buzzati, Quasimodo o lo stesso Bufalino. Quelle camicie nere, si diceva sempre in spiaggia, erano poi così consone al vestiario tipico di un afflitto Meridione ancora velato di drammatici ricordi, che non poteva non risentirne chiunque, letterato o semplice osservatore che fosse. Questo è a mio parere l’elemento caratterizzante della produzione culturale italiana dell’ultimo cinquantennio. D’altro canto, le esperienze sono tutto, penso ad uno dei più grandi umoristi di tutti i tempi, Jerome, che dopo l’esperienza della Grande Guerra non riuscì più a sorridere, né a far sorridere.
Non abbiamo ancora dimenticato quelle tristi vesti e quelle orribili facce? Probabilmente non è una questione di ricordi ormai, ma solo di manierismo, di rifacimento su chi quegli eventi li aveva vissuti. Il problema, in sostanza, non è Bufalino, ma chi è venuto dopo, incapace a tutti i livelli di far progredire genuinamente il paese. Come dicevo prima, il più recente fallimento politico potrebbe essere una buona occasione per andare oltre l’afflizione, ma l’esperienza mi impone il dubbio.
Gaetano Celestre