Dislessia: caratteristica o categoria?

Da Rossellagrenci
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Forse non ne siete del tutto consapevoli, ma parlare di dislessia sul web è diventato un buon argomento di discussione. Ben venga!  Naturalmente più aumentano gli interventi, maggiore è la possibilità che si dica qualche sciocchezza, se non proprio delle vere e proprie inesattezze alle quali, purtroppo, non mi sono ancora rassegnata.

Questo preambolo è perchè oggi ospito due risposte ad un articolo pubblicato qualche giorno fa, che vi invito a leggere, e che a me ha lasciato subito perplessa: l’articolo è questo qui

La prima risposta l’ha lasciata come commento Paola (un’anonima lettrice), coomento che condivido pienamente, ma che vi consiglio di leggere solo dopo aver letto l’articolo in questione.

Il commento di Paola:

“Dislessia”, o meglio disturbo specifico della lettura è, sì, un’etichetta diagnostica, che, però, riassume in una parola un complesso iter diagnostico che innanzitutto esclude tutte quelle cause altre (es. ansia, insicurezza, pensieri, vergogna, genitori che litigano o che si stanno per separare, bassa autostima, rabbia, sonno, genitori che svalutano l’insegnante, disinteresse, problemi con l’insegnante, mancanza di diottrie, problemi dell’udito, problemi d’identità, ansia da prestazione, problemi di alimentazione, fatiche nella relazione con i pari, etc. etc. etc) e fa riferimento ad una difficoltà nell’acquisizione degli automatismi della lettura dovuta ad una base neuro-biologica. Per questo la diagnosi non viene effettuata solo sulla base del test di lettura, ma secondo una serie di altri precisi criteri di inclusione e esclusione. Per questo motivo, ciò che è scritto in questo articolo è scientificamente scorretto nei suoi presupposti. E’ lodevole, però, il tentativo di riportare l’attenzione sull’individuo, con le sue caratteristiche neuro-psicologiche, poichè spesso il codice diagnostico – che è molto utile per fare chiarezza – distrae dalla complessità di cui ciascuno di noi è portatore.

La seconda risposta la pubblico io ed è stata scritta appositamente per questo blog dalla dottoressa Antonella Amodio, psicologa, psicoterapeuta e pedagogista, nonchè docente (dislessica e autrice), che così scrive:

In pieno accordo con l’illustre collega, riconosco, come d’altronde tutta la psicologia contemporanea fa, che il linguaggio abbia un ruolo fondamentale nel creare la realtà, le realtà.. Che le parole abbiano la capacità di strutturare le esperienze mettendo a disposizione dell’evoluzione ontogenetica le categorie concettuali sulla base delle quali si costituirà il sé dell’individuo, è oggi dato acquisito. Questa se vogliamo, la base di quel fenomeno noto come ‘ profezia auto-avverantesi ’, ormai fortunatamente piuttosto conosciuto nell’ambito scolastico: confeziona un abito per qualcuno e quello, prima o poi lo indosserà.

Credo anch’io che non sarebbe affatto necessario creare continuamente categorie diagnostiche medicalizzando ogni cosa, spesso basterebbe riconoscere e rispettare le differenze individuali. Per le difficoltà scolastiche basterebbe infatti riconoscere l’esistenza di differenti stili cognitivi e curvare su di essi l’apprendimento così come recitano le indicazioni del nostro Ministero. Porre al centro l’alunno e non i programmi, vorrebbe dire proprio questo. Non, dunque, programmi calibrati sulle capacità di un fantomatico alunno medio, che non esiste, che è solo un’astrazione (perseguendo la quale ovviamente resteranno fuori tutti quelli che non raggiungono l’obbiettivo) ma piuttosto il singolo individuo. Se si pone questo al centro, l’obbiettivo sarà raggiunto quando egli avrà acquisito i programmi. Ancora una volta non è un gioco di parole, ma parole che creano realtà diverse. Ovviamente al centro di queste osservazioni non è il mondo scolastico di cui in qualche modo faccio parte, ma un sistema, quello di una scuola per tutti, che per essere davvero tale deve tenere in considerazione appunto tutti, non la media. E’ questo un obbiettivo che richiede grossi sforzi e un impegno di capitali in un settore che, non producendo interessi immediatamente quantizzabili, oggi purtroppo viene depotenziato piuttosto che incrementato. E’ un po’ difficile seguire i singoli in classi super affollate, se non addirittura in pluriclassi ma questa è un’altra storia..

In conclusione, pur se in accordo con il dottor Davide rispetto alle etichette, devo riconoscere che purtroppo il pensiero umano non può prescindere dalle categorie, dai pregiudizi intesi non in accezione negativa ma quali necessità culturali e psicologiche, storicamente determinate. Pura utopia il raggiungimento di una posizione astorica da cui guardare e comprendere oggettivamente le cose. Quello che come esseri umani possiamo fare resta dunque, nella piena consapevolezza che esse sono sempre parziali e migliorabili, il crearne sempre di nuove e più adatte agli scopi che intendiamo perseguire. Ritengo pertanto che se invece della categoria dei DSA devono essere utilizzate quelle tanto obsolete, quanto maggiormente inficianti per un sé in fieri quali quelle degli asini, degli svogliati, dei ‘chi potrebbe ma non vuole’ senza riconoscere proprio nella discrepanza tra capacità e risultati ottenuti il chiaro segnale di una difficoltà, quale essa sia, meglio allora DSA.

Che idea vi siete fatti in merito? Ringrazio tutti quelli che vorranno partecipare a questa discussione!
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