Urumqi è la Cina, ma è una Cina un po’ forzata. Ci sono le banche cinesi e i grandi magazzini, gli autobus in orario e i dumplings nei loro contenitori tondi di legno, ma questa è solo una faccia della città. Una delle sue quarantasette facce per essere corretti, ossia il numero delle etnie che qui convivono, nella regione in cui i continenti si sono incrociati per secoli. La fila per comprare i biglietti del treno è composta da pelli scure, zigomi alti, cappelli squadrati, occhi a mandorla, lingue nuove. Non c’è una persona uguale all’altra, ma le differenze non aiutano a capirne la provenienza. Per quello che ne so potrei avere davanti pakistani, russi, o un misto di tutto quello che sta nel mezzo.
Era tempo di muoversi. La Cina della prime due, tre, settimane, era diversa da quella dell’ultimo periodo. Avere vita facile mi piaceva. Non dover discutere con ogni tassista, poter essere certi di non trovarsi un topo in camera, trovare delle lenzuola pulite su un treno in cui non possono salire mendicanti, non avere persone che ti fermano per strada ad ogni ora del giorno per venderti qualsiasi cosa, poter mangiare sempre bene, sempre a poco, era una novità. La Cina è senza dubbio il luogo meno avventuroso in cui sia mai stato, dove se non fosse per l’insormontabile barriera linguistica, l’unico ostacolo sarebbero i costi. È stato bello potermi muovere per vedere ciò che mi interessava vedere senza intoppi. Andare, fotografare, tornare. Andare, fotografare, tornare. Andare, fotografare, tornare. È stata un pausa piacevole ai ritmi a cui mi ero abituato. La realtà, però, è che le migliori storie non sono mai venute fuori da un’attrazione turistica, ma da ciò che succede lungo la strada per arrivarci. E in questo ordine cinese mi sono reso conto che è successo molto poco.
Sarà che mi sono accorto di essere in Asia da 17 mesi, sarà che 17 mesi sono tanti e forse iniziano a farsi sentire. Può darsi che la colpa non sia della Cina, che da offrire ha veramente un sacco, ma con la perdita di motivazione ho deciso di accellerare i tempi e muovermi verso est più rapidamente di quanto abbia mai fatto, un po’ nella speranza di ritrovare gli stimoli in quei luoghi di cui ancora non so pronunciare il nome, un po’ nella realizzazione che forse l’ora di chiudere questo cerchio è arrivata.
Dopo aver perso nove giorni per rinnovare un visto a Pechino, sono salito su un treno per Xi’An, la prima tappa sulla vecchia via della seta. Dopo una notte, altre quindici ore su rotaia mi hanno portato a Zhangye e in altre ventuno ore sono arrivato qui, a Urumqi.
A Urumqi sono le dieci ed è ancora giorno. In realtà qui non sono le dieci, sono le dieci a Pechino, ma il tentativo socialista di standardizzare la vita di un miliardo di persone ha chiuso un occhio sulle due o tre fasce di fuso orario che qui dovrebbero trovarsi.
Non è un luogo particolarmente accogliente questa capitale, ma forse non è accoglienza che cerco. Non ho intenzione di fermarmi a lungo, ma i treni per Kashgar, il più importante snodo sulla via della seta, sono pochi e tutti pieni. Sono bloccato per tre giorni. Se non bastasse, qualcuno che arriva dalla direzione opposta racconta della chiusura del confine con il Kyrgyzstan per una protesta politica che è in atto già da qualche settimana. Non so se, come e quando potrò uscire dalla Cina e proseguire il viaggio verso casa.
Avevo scelto di uscire in Kyrgyzstan per due motivi: il trekking e il visto all’arrivo. Non mi sono procurato visti per altri paesi e non credo di avere il tempo di ottenerli. Non avevo previsto una chiusura del confine e al momento non ho un piano B, oltre al fatto che sono già largamente fuori budget. Non so bene cosa succederà nei prossimi giorni e spero di avere un’idea piú chiara delle alternative una volta a Kashgar. È un ostacolo di cui avrei fatto a meno. Ma almeno avrò una storia da raccontare.