Dizionario delle notti distanti (dalla R alla V)

Creato il 21 aprile 2011 da Violentafiducia0

rizòma dal gr. rizòma propr. cosa radicata, da rizòô fornisco di radici, che tiene a riza radice (v. Radice).
Complesso delle radici di una pianta; Radichetta di un seme.

Un’altra volta  ti chiamo per dirti: sto bene, non ho bisogno di nessuno, non ho nessuna fottuta paura. Da te arriva un rumore bianco, sottile: Sembri strana, sei sicura che stai bene? Se ti dico che sto bene, sto bene. La tua lingua di neve che sottovoce dice: Peccato. Allora ho pensato Adesso lo chiudo in una scatola e me lo dimentico.

*

svèllere o disvèllere = lat. vellere tirare con forza, strappare, prefissa la sibilante che rappresenta la particella lat. ex o dis indicante separazione (v. Divellere).
Strappare intieramente |detto specialmente di capelli, denti, radici, erbe e sim.
Deriv. Svelliménto.

Metti un punto, dice Marta. Marta compare a metà di questa storia. All’inizio non c’era. All’inizio c’ero io: una persona confusa con un ragazzo in testa come il vento. Marta fa più che starmi vicino. Mi compra le tisane multivitaminiche, mi porta le arance un pomeriggio che mi viene la febbre, ascolta sempre tutte le mie lagne declinate senza mai battere ciglio. Una sera mi porta un finto bonsai, uno di quelli che vendono dei finti cinesi su dei finti camioncini all’angolo di via Marco Polo. Mi dice Va bene, niente punto. Mi mette il bonsai sotto il naso e mi dice Adesso strappalo via da qui. Io la guardo un attimo senza capire, poi decifro tutte le metafore che ci sono da decifrare e comincio a sporcarmi le unghie.

 *

taròcchi fr. tarots |onde taroté marcato di segni alla guisa de’ tarocchi|; ted. tarok: antico giuoco italiano di carte detto anche Minchiate| precedente al Picchetto, che è d’invenzione francese. L’Heyse lo dice provenuto dall’Egitto|.
Le carte dei tarocchi si vedono per solito dipinte con finezza, a guisa di miniature sopra un fondo dorato, cosparso di punteggiature formanti graziosi arabeschi e contornato di un bordo argentato, nel quale le solite punteggiature raffigurano un nastro gigante a spirale. Senza dubbio questa tàra, ossia stampa o impressione fatta di piccole punteggiature allineate con ordine |cfr. b. lat. taràre forare, affine al class. tèrere battere|, deve aver dato il nome ai tarocchi, di cui le carte attuali ricordano l’antica origine, quando hanno il tergo coperto di arabeschi o punteggiature in nero o in colore.
Deriv. Taroccàre.

La relazione tra me e te è andata come doveva andare. Io un po’ lo immaginavo, ma ho voluto provare lo stesso. Se no finiva come il gatto di Shrӧdinger. Comunque questa volta non c’era bisogno di aprire la scatola. Questa volta lo sapevo, me l’aveva detto anche Agata. Agata è una mia amica che sa leggere le carte e se le porta sempre dentro la borsa. Una sera ci sediamo vicino al Pantheon e mi dice Dai che ti faccio le carte. Escono varie cose tra cui la Papessa e l’Impiccato. Ah, dice. Ah, cosa?, dico. Lascia stare. Davvero, questa storia, lascia stare. Andrà male?, dico io. Andrà come deve andare, dice lei. E infatti è andata male.

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útero = lat. úterus per *útterus [cfr. gr. ystèra], che significò anche addome, ventre [sscr. ud-àram], e collima col gr. ýs-teros posteriore, e meglio per la forma col sscr. úttâras che sta di sopra, eminente [perocché spesso le idee di sotto e di sopra talvolta fra loro si scambino, come il primo coll’ultimo] composto della partic. ût sopra [che confronta col got. ût, a. a. ted. ûz, mod. aus, a. irl. ud, od fuori di], e suffisso -taras = lat. -terus, che presentasi anche in ul-terior ulteriore, che sta al di là (cfr. Isterico). Altri lo dà come affine alla voce Òtre.
Viscere posto al basso del ventre nelle femmine, nel quale è custodito e cresce il feto durante la gravidanza: altrimenti Matrice.
Deriv. Uteríno = Che appartiene o si riferisce all’utero; in legge Aggiunto de’ parti nati d’una medesima madre, ma di diverso padre.

Sarà che questa storia l’avevo cresciuta senza sole. Era venuta su fragile, con le ginocchia bucate, incapace di restare in piedi. Ma la notte mi sembrava un posto incantevole. Un mondo cavo, un sogno che potevamo abitare in due. Una palpebra molle che ci chiudeva dentro. Un corpo vuoto e umido che ci accoglieva. Ci eravamo seduti lì, semplicemente, nell’interno nero dell’amore.

 *

viàggio rum. viadi; prov. viatges; fr. voyage; sp. viaje; port. viagem: dal lat. viàticus |onde il b. lat. viàtius| che vale riguardante la via o il cammino, e in forza di sost. neutro |viàticum| provvista per viaggiare, che ne’ bassi tempi era la cosa più importante di chi si metteva in via; indi assunse l’odierno di Cammino che si fà per andare da un luogo ad un altro, che sieno fra loro lontani (v. Via e cfr. Viatico).
Deriv. Viaggétto; Viaggiàre |fr. voyager, sp. viajar; Viaggiatóre-tríce.

Poco prima dell’ultima pagina mi viene in mente la storia di quella ragazzina che vive su un albero e gli uccelli le costruiscono nidi sopra la testa. Non riesco a ricordare il suo nome. Prendo un altro sorso di caffè anche se non ho voglia di bere caffè. Era una ragazzina molto bella, cresceva pagina dopo pagina diventando sempre più piccola. Come le ossa delle nonne, crescono rimpicciolendo. Quella ragazzina diceva che ogni tanto bisogna portare a spasso qualche parola e dopo scoprire cosa abbiamo scritto. E portare a spasso noi stessi e dopo scoprire dove siamo arrivati. E più cose porti con te meno vai lontano. Cose senza le quali ti sembra di non poter sopravvivere, cose che forse un giorno potresti usare ma non hai mai usato, cose che non vale la pena buttare perché tanto non occupano spazio, ma  sono centinaia. E poi le cose che non entrano più nella tua vita, e le cose che non devono più restare.

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