Dizionario delle notti smarrite (Z)

Da Juliekohler @brideinblack

zeugma
[ʒèug-ma]
s.m. (pl. -mi)
LING Figura retorica che consiste nel far dipendere da un solo verbo due o più elementi, dei quali solo uno risulta appropriato; es. parlar e lagrimar vedrai insieme Dante

Ho percorso le strade e le notti. Poi, mi son fermata: ero giunta alla fine. Ero il complemento oggetto che strideva all’interno della frase. Il verbo amare s’adattava a reggere lui e un’altra che non ero io.

Dunque, la fine. Indifferenza, vuoto, alcol. Cos’altro? Riflettere sul concetto di autodistruzione. Volevo distruggere me stessa e il nulla. Lui ha compiuto una pessima azione e io ho reagito. O forse il contrario. Ma il colpevole non lo troveremo mai. Nel caso, gli porgerei i miei più sentiti ringraziamenti.

Azioni e reazioni sbagliate. Che poi han finito con il portarmi a te. La fine s’era consumata solo pochi istanti prima e il cadavere di qualcosa non c’era più giaceva esanime e sanguinante sulla pista da ballo. Io mi sentivo persa, tutto era irrimediabilmente perduto – ancora una volta. Restavo immobile in mezzo a una pista semivuota – a farmi compagnia un cadavere che vedevo io soltanto – e la musica, colonna sonora del finale sbagliato, suonava senza che io riuscissi ad udirla. Tu ridevi e io t’ho guardato. Che cazzo c’avrà da ridere, questo, ho pensato. Mi hai guardato anche tu, ti sei avvicinato e m’hai detto, come se m’avessi letto nel pensiero: Oggi ho dato l’ultimo esame; sto festeggiando. Fingevo d’ascoltarti ed evitavo di guardare indietro, dove la mia fine s’era appena consumata. Ero immersa in una sensazione consueta, come se tutto intorno si fosse fermato, con la stanza completamente al buio ad eccezione di un occhio di bue proiettato su di me; un faro che illuminava il mio fallimento – questo talento inutile che possedevo, di attirare il peggio – e dimostrava come nel contesto io fossi l’unico elemento sbagliato, fuori posto, privo di ragione d’essere.

M’hai accarezzato la spalla nuda. Fingevi d’essere ubriaco. E, di certo, io non potevo arrendermi a te – con quel cadavere ancora caldo stramazzato sul pavimento. Era il cadavere della storia mai nata tra me e un’altra persona, una persona che ora si trovava a pochi passi da lì – indifferente e cattiva almeno quanto me. Una persona di cui avevo dimenticato il nome. O meglio, del cui nome avevo tenuto a mente solo l’iniziale – decima lettera dell’alfabeto. Ora, avevo perso anche quella.

Tu parlavi e ridevi. Io cercavo di concentrarmi sulle tue labbra carnose, i tuoi ricci scomposti, la tua camicia azzurra; eppure, in un angolo dietro la mia testa c’era la fine che continuava a deridermi sguaiata. Ecco, tu parlavi e ti facevi sempre più vicino e io non riuscivo a pensare che alla fine. E non potevo certo immaginare che tu saresti stato il mio nuovo inizio, entrato in scena appena pochi attimi dopo una fine che ignoravi.

Pensavo che, arrendendomi a te, avrei straziato quel cadavere e avrei proceduto ancora più spedita verso la distruzione tanto bramata. Un passo dietro l’altro, naturale e inevitabile – e poi il vuoto. Pensavo questo, nient’altro.

Mica credevo che saresti stato il mio nuovo inizio. Non sapevo ancora che tanti bei verbi ci avrebbero retti assieme. Né che noi due, complemento oggetto, avremmo formato insieme una frase di senso compiuto.

Prima parte.

Seconda parte.

Terza parte.

Quarta parte.

Dizionario dei giorni felici, disperati e normali e delle notti distanti alla lettera Z.