“Django Unchained”: per un pugno di mosche

Creato il 04 febbraio 2013 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

Django ama Broomhilda.
Django perde Broomhilda.
Django ritroverà Broomhilda.
That’s amore! Django Unchained è una love story calata in un western polveroso, parodiato, mancato. Sullo sfondo di molari molleggianti e sode frustate, interni soffocanti e vestiti sgargianti, Quentin  Tarantino ha tutti i mezzi per elaborare l’ennesimo capolavoro. Ma il risultato è un mischione di elementi visti e rivisti, sbocconcellati e presi a destra e manca. E’ una torta bianca, poco farcita, mal gustata, come quella amaramente ingerita sulla via del finale alla maison di Monsieur Candie.

Gli stilemi di Tarantino ci sono tutti: spassosi e ficcanti scambi di battute, lunghe chiacchierate da tavolo che apparentemente non conducono da nessuna parte, titoloni dal taste fumettistico, ostentate sequenze in interno, quella sottile vena cinica e ironica, mattacchiona e torbida. Poi comincia a pescare nel passato e in ciò che non gli appartiene, seppur di proprietà di un amicone come Rodriguez: da Bastardi senza gloria si rispolvera la scenetta della doppia lingua con tedesco comprensibile solo ad una ristretta cerchia (inserimento forzato in una sceneggiatura debole che va in qualche modo rimpolpata) e un giocoso e smodato uso del sangue prelevato da Machete e i suoi fratelli. Sangue a bicchierate, secchiate, bidonate che non sono nel genoma di Tarantino, ma del compare Rodriguez, appunto. Caramelle per divertire il pubblico, puntelli atti a sostenere uno script fragile. Insomma, troppo rodrigueziano, poco tarantiniano, e il gusto ci rimette.

A questi s’aggiunge una colonna sonora eclettica ma poco personale, con inserimenti  rap hip pop alla Wild wild West mischiati a fischiettate alla Sergio Leone e una canzoncina di Elisa più adatta ad un film di Fausto Brizzi o Gabriele Muccino.

In merito agli attori, tutti molto bravi. Statuario (non solo nel fisico) ma non autonomo Jamie Fox, profondo e viscido Samuel L. Jackson, divertente ma sempre uguale Christoph Waltz (l’idolo della sala!). Supera tutti di una spanna almeno Leonardo DiCaprio. Gli tocca il ruolo più scomodo, sporco, affascinante. Lo fa suo fino a renderlo con magistrale carisma. Sintomo di un interprete che è ottimo attore protagonista ma anche raffinato caratterista. Un attore che è saputo crescere ed evolvere fino a trovare il suo giro di boa con il sonnacchioso J.Edgar di Clint Eastwood.

Gettando un occhio alle cinque nomination agli Oscar, Django Unchained non è da miglior film né da miglior fotografia (troppo facile vincerla con un western!) né tantomeno da miglior sceneggiatura originale. Forse il montaggio sonoro e l’attore non protagonista a Waltz. Premio che però sarebbe stato certo e a mani basse se fosse stato in lizza quel giovine che un tempo incantò il mondo sul Titanic di James Cameron.

In conclusione, tornando al succo della faccenda, Tarantino non riesce a compiere quel passo (più lungo della gamba) dal fan estimatore sfegatato dello spaghetti western al “traspositore” di un genere così scivoloso (ci è caduto pure Kim Jee Woon con Il buono, il matto e il cattivo). Seppur il paragone sia un humus fangoso misto a sabbia mobili, se in Bastardi senza gloria – film di ben altro e alto valore – era riuscito a riscrivere la Storia, qui Tarantino non riesce a fare lo stesso con il genere western. In carenza di appeal, ci rimane solo un joke che è un pugno di mosche, con qualche scena vagamente memorabile (su tutte la disquisizione sul fastidioso cappuccio da Ku Klux Klan).

“Signori, avevate la mia curiosità, ora avete la mia attenzione” afferma Calvin Candie rivolgendosi ai due cacciatori di taglie. Tarantino ha ottenuto la nostra curiosità, ma purtroppo non la nostra attenzione. Django Unchained non è un film bastardo, ma certamente è senza gloria.


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