Ribadiamolo, dunque. Di là dal titolo che si presta ad ambiguità, Love Hotel non è per chi cerchi scene pruriginose. Anche perché i love hotel giapponesi non sono case chiuse né i nostri motel da tangenziale. Sono spazi in cui si paga a ore e ci sono stanze a tema, bizzarre e colorate, questo sì. Saranno certo meta delle coppie più stravaganti e improvvisate. Ma non sono queste che vediamo nel documentario di Cox e Toda. Vediamo, invece, un anziano solo che, dopo aver guardato i film erotici proiettati nella sua camera, realizza di non essere stato «abbastanza gentile» con le donne che ha avuto. Incontriamo una coppia matura di media condizione socio-economica che cerca di rivitalizzare il suo rapporto e che, soprattutto, pare scoprire la nudità e trovare il coraggio di parlarsi senza veli solo tra le mura protette di un love hotel. Ci si stupisce di sentire i coniugi, sulla quarantina, chiedersi (per la prima volta? o da quando non se lo domandano?) se vogliono avere un bambino.
Il love hotel di Osaka in cui entriamo è, infatti, rappresentativo dei 37 000 esercizi che regalano uno spazio di libertà «mentale oltre che fisico», per usare le parole di Philip Cox, in un Giappone che si è modernizzato senza occidentalizzarsi, ma che deve comunque pagare lo scotto dell'era internet, della globalizzazione e di una civilizzazione in nome della quale si è persa la naturalità. È il Giappone delle liceali prostitute, della dipendenza da internet e dai videogame, del lavoro competitivo e irregimentato, della riservatezza e della cortesia che diventano formalità alienanti, deifilm di Shinya Tsukamoto e dei libri di Ryu Murakami. È lo Stato che sta correndo ai ripari optando per un nazionalismo e un moralismo che prevedono la chiusura dei love hotel. A detta del regista, il documentario intende accendere i riflettori su un'involuzione conservatrice che ricondurrà a un rigido controllo della vita pubblica e privata dei suoi cittadini.
Qualcuno potrà chiedersi perché registi e produttori abbiano scelto di parlare del Giappone attraverso un love hotel. Credo ci sia stata la volontà di strizzare l'occhio al pubblico più vario. Ma ricordiamo che parliamo del Paese in cui certo Buddhismo, influenzato da principi di matrice tantrica, insegna che è la "via dei sensi" a condurre all'illuminazione; dove lo Scintoismo ha sublimato il corpo, considerato sacro, e definito una follia la castità; dove un rigoroso autocontrollo ha portato alla nascita di luoghi alternativi in cui vivere e sperimentare emozioni e impulsi. Dunque, nella nostra epoca già oltre il postmoderno, il love hotel si presta in modo perfetto a fungere da microcosmo paradigmatico della complessità contemporanea
Ma c'è di più. Come ha voluto sottolineare la produttrice italiana Giovanna Stopponi, il film tratta temi universali
Per questo credo che Love Hotel – non a caso co-prodotto da Giappone, Gran Bretagna e Francia – possa essere una visione salutare per il pubblico di qualunque nazione “ipersviluppata”, purché vi si approcci con sguardo limpido e aperto, senza morbosità, curiosi di esplorare un'umanità che non regge più i ritmi innaturali e alienanti di una società che stabilisce la norma sulla base della produttività economica, della competizione, della ricerca del successo e di una strumentale omologazione. Una società che spinge a rifugiarsi nei love hotel.
(già, con varianti, qui: http://www.sulromanzo.it/blog/docufilm-love-hotel-di-philip-cox-e-hiraku-toda)